L'incontro fra mondi diversi? È il romanzo più interessante

Mabanckou, autore de Le luci di Pointe-Noire, spiega come la nuova generazione di scrittori d'origine africana narra il tema dell'identità

L'incontro fra mondi diversi? È il romanzo più interessante

Alain Mabanckou, insieme con Yasmina Khadra e Stefano Benni, è ospite oggi di «Letterature», festival diretto da Maria Ida Gaeta.Qui presentiamo una parte del suo intervento. La serata Afropolitan, prevista a Roma in Piazza del Campidoglio, potrebbe svolgersi alle ore 21 al Teatro Argentina per il maltempo. Per conferme: 060608


Amo tutte le città che at­traverso, mi incanta­no tutti i luoghi che non assomigliano a quelli della mia infanzia. Arrivo in ciascuno di questi luoghi a cuor leggero, senza pensieri. Non si è migranti quando si esporta la pro­pria essenza, i propri modi, costumi e gu­sti allo scopo di imporli nel paese che ci accoglie. Quando il luo­go in cui vivi­a­mo si contrap­pone con tan­ta forza al no­stro «ambien­te naturale», è allora che riaf­fiora, all’im­provviso, il « guardaro­ba » della no­stra infanzia: i rumori delle nostre strade, le gioie e i do­lori del nostro popolo. È du­rante i periodi di burrasca che ti accorgi della bellezza di un cielo az­zurro, di un vo­lo libero di u­c­celli o del fiori­rediun’essen­za di cui cer­chi invano il nome finché, un bel giorno, non ti ricordi che cresceva dietro la casa di tuo padre o in un giardino pub­blico del quartiere di Mounga­li, a Brazzaville. È nel deserto che ci si rende conto che l’ocea­no Atlantico­e il fiume Congo so­no una benedizione divina. Ma c’è sempre il rischio di conside­rare le pagine di un «emigrato» come zampilli della sua nostal­gia. In realtà si può soffrire di mal di patria anche restando nella propria terra. Io non sono un nostalgico, io nutro nel mio intimo l’inquietudine, un’in­quietudine costante al pensie­ro di dover lasciare un giorno questo mondo senza avere sco­perto quel minuscolo particola­re che ci lega… Negli anni Ottanta abbiamo assistito alla «proliferazione» di una letteratura cosiddetta di migrazione, quella a cui Jac­ques Chevrier avrebbe dato in seguito il nome di «migritude». Opere come quelle dei miei col­leghi Daniel Biyaoula ( L’Impas­se ) o J.R. Essomba ( Le Paradis du Nord ) ci avrebbero svelato la vita quotidiana dell’africano scisso tra l’Africa e l’Europa. Al tempo stesso la questione del­l’emigrazione si apprestava ad entrare nel cuore stesso delle politiche europee: l’immigrato cominciava a essere percepito come lo «straniero» per antono­masia, come colui che rispunta fuori per conquistare in modo fraudolento uno spazio che in passato aveva difeso per la glo­ria degli imperi coloniali… Il fenomeno della «migritudi­ne», tuttavia, non è nuovo: ba­sta risalire per esempio a ro­manzieri come Bernard Dadié ( Un nègre à Paris ) o anche Ca­mara Laye ( L’Enfant noir ). Si trattava allora, per il primo dei due, di fornirci uno schizzo dei costumi degli abitanti del Nord. L’immigrato tornava in patria per raccontare le sue av­venture, più o meno sul model­lo dell­e Lettere persiane di Mon­tesquieu. Lo animava la sete di scoprire l’universo del suo colo­nizzatore di un tempo.

Per Ca­mara Laye, anche se il suo viag­gio viene rievocato soltanto nel­le ultime pagine del romanzo, non si trattava solamente di ce­lebrare la sua terra natale, ma anche di cercare altrove il sen­so da dare alla propria esisten­za: l’Europa era la salvezza, il luogo di consacrazione attra­verso il conseguimento di un ti­tolo di studio.

Un esperimento del genere poteva apparentarsi al suicidio, perché lo scontro tra due culture diverse spinge­va il personaggio verso una for­ma di follia, come accade nel ro­m anzo L’Aventure ambiguë di Cheikh Hami­dou Kane… La nostra ge­nerazione – quella emer­sa negli anni Novanta – ha certamente condiviso questa visio­ne del mon­do. Ma molti di noi aveva­no deciso di vi­vere altrove, mentre in al­tri casi non si trattava di una scelta ma di una costri­zione le cui cause scate­nanti non era­no meno va­riegate del nu­mero stesso dei migranti. Il ritorno al­l’ovile non era necessaria­mente previ­sto nell’agen­da del migran­te. Scopriva­mo­che la lette­ratura non aveva un unico paese di origi­ne. Che l’emigrato aveva la na­zionalità di chi lo leggeva. Con il moltiplicarsi dei mezzi di co­municazione abbiamo dun­que creato regioni nuove, nuo­ve ramificazioni attraverso il mondo. «Roma non è più den­tro Roma », e lo scrittore diventa allora quell’uccello migratore che si ricorda della sua terra lon­tana ma si sforza anche di canta­re dal ramo dell’albero su cui è appollaiato.

Questi canti di uc­celli migratori appartengono ancora al corpo delle letteratu­re nazionali? Non ne sono sicu­ro, non più di quanto sia convin­to che la letteratura sia disposta ad accontentarsi di uno spazio dai contorni ben definiti. Abite­rei qualsiasi luogo del mondo purché desse asilo alle mie fan­tasie e mi lasciasse reinventare il mio universo. Sono insieme uno scrittore e un uccello migra­tore. Ecco perché il mondo è la mia casa.

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