L'INCONTRO Il regista: «In basso per spingerci a inginocchiarci»

«Non amo vedere il museo come un orfanotrofio, dove le tele sono abbandonate a loro stesse. Non m'interessa che i quadri occhieggino dalle pareti. Ci sono opere come queste esposte, che esigono lo sguardo dei puri di cuore». Ieri sera a Brera, in un vivace e partecipato dibattito alla sala della Passione, Ermanno Olmi ha difeso l'allestimento da lui firmato in Pinacoteca per il «Cristo Morto» di Andrea Mantegna e la «Pietà» di Giovanni Bellini. Il progetto pone la tela del Mantegna in fondo a una saletta, la VII, priva di cornice, a 67 cm da terra, incastonata in una teca e alle spalle, a pochi metri di distanza, la «Pietà». Andrea Carandini, presidente del Fai, sostiene che il Mantegna così com'è stato messo non può esigere lo sguardo dei puri, perché «è all'altezza delle pudenda maschili, che tutto hanno fuorché gli occhi». Olmi replica: «Bisogna per forza inginocchiarsi davanti a un'opera così». Non tutti concordano. Per Carandini si rischia l'eccesso di artificio, per Giovanni Agosti, di «rendere il dipinto una diapositiva» (ovvero: buono l'effetto, ma se temporaneo).

Olmi non cede: l'unicità del dipinto, che testimonia la devozione dell'artista (il Cristo parrebbe un autoritratto del Mantegna), giustifica l'eliminazione della cornice, il suo isolamento, la nuova illuminazione. Il sogno del regista? Convocare in Pinacoteca Claudio Abbado il venerdì Santo con un'orchestra d'archi per suonare l'«Adagio» di Haendel: «Per dialogare con le opere, per dialogare con noi stessi».

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