Luciano De Crescenzo e la fotografia

Il lungo rapporto tra il "professore" e il mondo della fotografia nella sua Napoli

Luciano De Crescenzo e la fotografia

“Le fotografie”. “Come dice, professore?” Era il 2006, festa della Margherita (non la pizza, il partito che riuniva i democristiani che guardavano a sinistra e i prodiani di ferro) a Pontecagnano Faiano, cittadina alle porte di Salerno. 13 anni fa, un’altra era geologica politicamente parlando. Il professore era seduto lì, in giacca bianca, sotto la piccola tensostruttura che dava il benvenuto agli ospiti di riguardo. All’epoca lavoravo per una storica emittente televisiva campana, Tele Vomero, e mi avvicinai per chiedergli una breve intervista. All’inizio rispose “Mo’ non posso fare niente, perché inizia il dibattito”. Ma poi, visto che alcuni politici regionali stavano occupando il palco per il loro talk più del dovuto, mi disse “Andiamo”. La mia prima domanda riguardava una delle tante scene clou di un film visto e rivisto decine di volte da tutti i napoletani “Così parlò Bellavista”, del 1984. La scena vedeva protagonista Riccardo Pazzaglia, fustigatore dei costumi e dei luoghi comuni napoletani, titolare della rubrica “Lo specchio ustorio” sul Mattino di Napoli; Pazzaglia raccontava a una folla radunatasi attorno a lui nei pressi di piazza Mercato la ricerca spasmodica di un cavalluccio a dondolo rosso, desiderio espresso per il regalo di compleanno dal nipotino Geppino, con un imprevisto furto in auto. Ogni qualvolta arrivava qualcuno ad aggiungersi alla piccola folla, il racconto ricominciava daccapo, identico. Chiesi al professor De Crescenzo se in fondo, qualcosa della Napoli di Bellavista non restava nella Napoli del 2006, che stava appena uscita dalla terrificante prima guerra di camorra a Secondigliano e stava per entrare nell’altrettanto devastante crisi dei rifiuti che avrebbe sepolto il governatore Bassolino e un’intera classe dirigente.

Con il suo fare ieratico (aveva 78 anni) mi rispose: “Le fotografie” e alla mia sorpresa continuò: “Quando ero ingegnere all’IBM, ma anche prima, giravo per Napoli con una macchina fotografica, la mia fedele Nikon, e fermavo nello scatto le situazioni che mi incuriosivano. Vedendo quelle foto, ti rispondo che sì, c’è sempre qualcosa della Napoli di Bellavista che sopravvive, nonostante molte cose siano cambiate”. De Crescenzo scattò molte foto nel corso degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. I prezzari delle bancarelle scritte con il pennarello rosso e le cifre bordate di blu, la bottega del fuochista “Andrea o’ criminale”, pronto a fabbricare anche al momento i botti per Capodanno, l’esterno della bottega dell’artigiano Gennaro Iengo, che aggiusta sedie e ceste di vimini, il vecchio con la faccia scavata che prende un melone da una bancarella e lo porta all’orecchio per ascoltarne la consistenza. Le fotografie di Luciano De Crescenzo danno forse l’immediata percezione del napoletano come idealtipo dell’uomo d’amore (concetto caro al professore) e di Napoli come “ultima speranza dell’umanità”. C’è un concetto che lo scrittore Domenico Rea espresse da par suo in una piccola antologia composta per il Touring Club Italiano negli anni Sessanta; Rea descrive quel senso di sopravvivenza anche fisica che trasmette Napoli in molti suoi angoli. Una metropoli che sembra sempre precipitare nell’abisso, ma che poi trae linfa per la giornata successiva proprio dalla conservazione di alcuni suoi angoli, anche come forma di resistenza che però diventa capacità di rielaborare qualsiasi cultura “foresta”.

La foto di De Crescenzo della pizzeria “d’e Figliole” a Forcella (un tempio della pizza fritta dal 1860), o quella dei due addetti alle pompe funebri che, portando una bara, tengono con la mano rimasta libera un panino da addentare. Le signore che escono da un negozio su cui campeggia l’insegna “Piedi difficili” (trattasi del callista). Sono foto con una loro atemporalità, cioè alcune cose potrebbero vedersi anche oggi, cercandole in quella Napoli di artigianato diffuso che ha resistito alle fiammate delle crisi economiche che si sono succedute.

Certo, sarebbero scene rivedute e corrette dai tempi, ma una città che è riuscita a napoletanizzare persino la trap music, riesce a digerire qualsiasi tentativo di omologazione. Chiudiamo con la foto di una targa “Vito De Simone polli e uova”; poco sotto un campanello con un cartello e una freccia che lo indica: “Carlo Russo non vende né polli né uova, non bussate!”.

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