Secondo Viola Di Grado, autrice di Cuore cavo (edizioni e/o, pagg. 176, euro 16), l'alternativa tra Paradiso e Nulla è troppo drastica. Per questo nel suo secondo romanzo, che segue il fortunato Settanta acrilico trenta lana (edizioni e/o, 2011, premio Campiello Opera prima), la scrittrice immagina che la morte sia all'incirca uguale alla vita. Mentre sottoterra il corpo si decompone i morti continuano a «vivere» in mezzo a noi. Protetti dall'invisibilità, ci osservano: «Guardo gli altri vivere. Li riconosco, li capisco, ho tante parole per loro, ma loro non mi vedono più». Dopo un attimo di choc, i fantasmi riprendono a compiere i gesti quotidiani. Frequentano i posti di sempre. Vanno a lavorare come niente fosse. Tornano a casa. Stringono amicizia fra loro. S'innamorano, anche se la passione che li anima talvolta sembra una recita.
Così la giovane Dorotea Giglio, incline alla depressione, si uccide tagliandosi le vene nella vasca da bagno. Poco dopo scopre di essere ancora immersa nella vita di tutti i giorni, sia pure nella strana posizione del fantasma. Non uno dei problemi dai quali cercava di fuggire è stato evitato. Anzi. Ora riesce a mettere a fuoco la condizione disperata della madre fotografa, votata all'autodistruzione; può comprendere meglio quel senso di desolazione che ha allontanato l'ex fidanzato e le amiche; capisce infine il dramma che pesa sul passato della sua famiglia, e i tentativi vani di superare i sensi di colpa. Purtroppo non c'è soluzione. Quel che è stato, è stato. La morte si rivela «una matrioska di stanze vuote». Proprio come la vita, viene da aggiungere al lettore. Non saremo dunque tutti quanti morti viventi? Non siamo forse freddi, annoiati, soli, distanti come i fantasmi che ci scrutano? Anzi, gli spettri hanno un vantaggio su di noi. Sono creature labili, dai ricordi evanescenti. «Era una liberazione, essere finalmente fuori di me: da viva passavo troppo tempo dentro di me, segregata nel freddo monolocale del mio cervello». L'introspezione è necrofilia perché ci obbliga a riscoprire in continuazione tutti i (tra)passati momenti che ci hanno segnati. I fantasmi «vivono» meglio questo tipo di problema.
La differenza tra vita e morte risiede solo nel possesso di un corpo funzionante («La bellezza interiore» è «essere piena di organi») ma è una differenza insignificante perché transitoria. Molte pagine del romanzo documentano accuratamente lo sfacelo del cadavere di Dorotea. «La mia faccia è gonfia, i miei occhi sporgenti. La pelle leggermente scollata dal viso. Le ferite sui polsi sono sparite. Sull'attaccatura delle mie braccia sono comparse delle linee spaventose. Tubi larghi e rossi come palloncini sgonfi. All'inizio non le riconoscevo, poi ho capito. Sono le mie vene. I germi le hanno gonfiate. Sono piene di eritrociti che si disgregano, uno dopo l'altro, finché alla fine mi lasceranno le vene vuote come le grondaie di un palazzo da demolire. Ho paura».
Questi passi non sono voyeuristici come potrebbero sembrare a prima vista. C'è una sorta di tragica nostalgia per la materia ma latita la pietà consolatoria: questa caratteristica evita al romanzo di scivolare nella fiaba gotica dal sapore esistenzialistico, e dunque è la vera cifra di Cuore cavo. In questo senso Viola Di Grado va ad aggiungersi a una serie di scrittori, completamente diversi tra loro, che negli ultimi anni hanno tributato un'enorme attenzione al corpo nei suoi aspetti insieme degradanti e poetici. Ci sono i corpi dei culturisti di Walter Siti, ove l'immagine, come oggetto del desiderio, si sostituisce del tutto all'identità. Un tema che attraversa tutta l'opera del neodirettore di Granta, e che forse trova la sua formulazione più completa in Autopsia dell'ossessione (Mondadori). C'è lo stupore dell'esploratore Tiziano Scarpa alla riscoperta di un «oggetto» a lungo dimenticato dalla nostra letteratura (Il corpo, Einaudi). C'è il materialismo dagli esiti imprevedibilmente spirituali dei Canti del Caos (Mondadori) di Antonio Moresco, in cui è analizzato e raccontato ogni anfratto del corpo, dall'embrione nel grembo materno fino alla carcassa pronta per l'obitorio. C'è il materialismo al silicio di Massimiliano Parente, ove il corpo è una macchina biologica pronta alla fusione con le macchine tecnologiche (a esempio ne L'inumano, Mondadori). C'è Il corpo umano (Mondadori) di Paolo Giordano, ove le funzioni biologiche, anche le più umilianti, sono in un certo senso il minimo comune denominatore dell'umanità e dunque ciò che ci unisce.
Cos'è quest'attenzione al corpo? Un trionfo del materialismo o il ritorno, aggiornato e magari inconsapevole, di un filone tipico della cultura cristiana? Sembra incredibile ma il dibattito su questo e altri temi è più acceso su Twitter che tra le pagine dei critici letterari.
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