La memoria negata di un martire per caso

Nel paese di una vittima della banda partigiana di Primo Levi, Fulvio Oppezzo è un pallido ricordo. E chi cerca di indagare sbatte contro un muro di silenzio

Primo Levi (disegno di Dariush)
Primo Levi (disegno di Dariush)

Ci sono vicende che si snodano nel tempo. E altre a strati verticali. Per comprenderle è meglio ragionare nei termini di «sopra» e «sotto». Può essere così anche per la vita e la morte del tenente Fulvio Oppezzo. Il «sotto», il basso lo si può indagare a Cerrina, piccolo borgo del Monferrato. Fulvio era nipote del podestà del paese, il rampollo di una di quelle famiglie che nel loro piccolo contano. Erano arrivati a Cerrina nel 1935 al seguito del patriarca e subito Fulvio venne inviato a studiare al collegio «Trevisio» di Casale.
Qualche anziano un ricordo del ragazzo, anche se sbiadito, lo conserva. Dice Maria Cerruti: «Era gentile, allegro, giocava con tutti. La sua famiglia era un po' appartata, forse si davano anche qualche aria. Lui no... Un ragazzo buono e uno dei primi a partire partigiano». Nel 1940, all'entrata in guerra dell'Italia viene subito inviato al liceo della scuola militare di Milano. Del resto Ugo Oppezzo, suo padre, era un decorato della Grande guerra. Un ragazzino con la faccia pulita e le spalle piccole che sorride in una divisa troppo larga, un ufficiale bambino. Così appare nella foto nella scuola media di Cerrina che oggi a lui è dedicata, anche se alla targa manca una «p», quindi la scuola si chiama «Fulvio Opezzo». Nel 1943 fa appena in tempo a ricevere i gradi, poi arriva l'8 settembre. Il tenente bambino riesce a tenersi le armi e scappa in montagna con dei coetanei: sceglie i partigiani e parte per la Val d'Ayas. Non tornerà più.
E ora il «sopra», la parte di storia che ha indagato Sergio Luzzatto in Partigia (Mondadori). Perché Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, i due ragazzini ammazzati dai loro compagni partigiani che li accusavano di furti nella valle, vengono fucilati «alla sovietica», quindi senza processi o spiegazioni. E tra di essi, anche se per Luzzatto non premette il grilletto, c'era anche Primo Levi. Di quel fatto restano sporadiche e addolorate tracce nei suoi libri, ma nessun racconto chiaro, esplicito. Il mistero, il motivo di quella fucilazione, resta lassù nella baita di Frumy per decenni. E ora, con l'uscita del libro di Luzzatto, rimbalza tra le pagine dei maggiori quotidiani.
Ma torniamo al «sotto». Che cosa succede a Cerrina, in casa Oppezzo? Questo lo sappiamo, lo racconta in sintesi anche Luzzatto. A Cerrina c'è una madre disperata, Idalia. Qualcuno ricorda ancora il suo lutto permanente, le sue richieste di memoria. Quello che si sa è che suo figlio è morto in montagna, e tanto basti. Fulvio diventa un eroe, anche per il parroco. Il 10 giugno 1950 viene inaugurata e benedetta la scuola a mezza collina che ancora porta il suo nome. La dedica è lapidaria, minimale: «Giovane cerrinese caduto per la liberazione». Il resto venne da sé, lo fece il tempo. La dedica di una piazza cui manca la targa, una memoria sbiadita e stereotipata da 25 aprile. Così oggi se ti aggiri per queste belle casette di collina e chiedi «questa è piazza Oppezzo?» di risposte ne ottieni pochine. Per quasi tutti vale un «non lo so, qui è così piccolo il paese che i nomi delle vie chi se li ricorda?».
E anche se si chiamano le Anpi locali si ricava soprattutto stupore. Oppezzo non se lo ricordano nemmeno a Casale: iscritti di Cerrina non ne hanno. Alla scuola dedicata a Oppezzo cascano quasi tutti dalle nuvole. Il dirigente scolastico Mauro Bonelli: «Guardi, sono qui solo da un anno e confesso che di Oppezzo non so quasi nulla... Io mi sono interessato di ricerche storiche sulla Resistenza, non ne ho affatto una visione oleografica e buonista. Ho studiato avvenimenti relativi ad altre zone del Monferrato. Ma davvero sulla vicenda Oppezzo qui nessuno ha mai saputo nullla... Ci stiamo attivando adesso dopo aver letto i giornali». Poi arriva di rincalzo il professore di storia che è stato contatto da un ricercatore di storia locale, Claudio Borio, il quale si è messo ora al lavoro sulla vicenda ma non ne aveva mai sentito parlare.
Solo un sacerdote originario di Cerrina, Ermenegildo Gonella - questo lo racconta Luzzatto - ha cercato di indagare in Val d'Aosta, trovandosi di fronte a un muro di gomma. Però aveva solo sospetti che dovevano fare a pugni con una leggenda assolutoria che andava bene a tutti. Il Paese aveva un eroe, i partigiani erano tutti buoni, le montagne lontane e perfette per nascondere i segreti. E là in alto resta il mistero di una sentenza di morte feroce a cui partecipò portandone il peso anche il mite Primo Levi.
Sapremo mai davvero perché i due ragazzi vennero uccisi a sangue freddo? Quali colpe vere e presunte abbiano portato a un gesto così brutale? La risposta non sta «sotto», a Cerrina. Il borgo ha semplicemente messo Oppezzo tra i suoi morti di guerra, accettato la verità che veniva fornita, consolato una madre con un ricordo che sembrava il più adeguato. La verità, invece, quella rimasta in montagna, non è quasi mai adeguata ed è quasi sempre dolorosa.


Lasciando Cerrina, così tranquilla e primaverile, tutta raccolta attorno alla sua piazza Martiri Internati (neanche quella però ha la targa) viene in mente quella frase proprio di Levi: «La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo (...)». E questo modella anche la nostra memoria, purtroppo.

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