Cultura e Spettacoli

Moby Dick secondo Bradbury Un classico (della fantascienza)

Arrivano in libreria due splendidi racconti del padre di "Fahrenheit 451" Sono pieni di riflessioni morali degne di Melville, ma ai confini della realtà

Moby Dick secondo Bradbury Un classico (della fantascienza)

«Non ci sono perso­ne in questa cit­tà. Niente abitan­ti, niente storia. A nessuno importa se una città vie­ne distrutta se non ci sono persone che la abitano. La tua “storia” non durerà che un giorno, forse. Nes­sun libro, né serie televisiva, né film per te». Invece questo libro è come le Operette morali di Giacomo Leo­pardi ma Aiconfinidellarealtà : siin­titola Ora e per sempre ( Mondadori, pagg.176, euro 10) e raccoglie due racconti fantastici di Ray Bradbury (1920-2012), fantastici in ogni sen­so. Nel primo, Da qualche parte suo­na un’orchestrina , uno scrittore, Ja­mes Cardiff, scende da un treno e si ritrova in una misteriosissima città fantasma dell’Arizona, Summer­ton, abitata da una popolazione di immortali che ha messo in salvo tut­ti i libri bruciati del mondo, ossessio­ne dell’autoredi Fahrenheit 451 , for­se l’unica cosa che non poteva im­maginare è che sarebbe stata la de­mocratica internet a bruciare i libri (infatti si oppose sempre all’e-book dei suoi stessi libri, tranne proprio per Fahrenheit 451 ). In realtà im­mortali per modo di dire, questi mu­tanti vivono fino a centotrent’anni, oggi ci si arriva pure con la dieta Ve­ronesi, ma non è questo il punto. Piuttosto qui c’è un fanta-esisten­zialismo da Twilight zone (di cui Bradbury fu uno degli autori) pieno di trovate geniali, che una scrittura misurata, satirica e raffinata fa pen­sare più vicino a Jonathan Swift che a Philip Dick. Gli abitanti di Som­merton, per esempio, non hanno semplicemente salvato i libri già stampati dal rogo ma anche i libri inediti: l’ultima poesia di Edgar Al­lan Poe o l’ultimo racconto di Her­man Melville, carpiti negli ultimi istanti, conoscendo «l’idioma del delirio».«Siamo andati a trovarli sul letto di morte nelle loro ultime ore di vita. I moribondi, a volte, parlano in altre lingue. Se conosci l’idioma del delirio sei in grado di trascrivere le loro strane e tristi verità».Poi c’è il problema tipico degli highlander, che tutti gli amici invecchiano e gli immortali no, e proprio come gli Struldbrurg incontrati da Gulliver anche i mutanti di Sommerton un po’ si annoiano, a vivere troppo non succede mai niente.

Come nel secondo racconto, Le­viatano ’99 , addirittura la versione spaziale di Moby Dick che a scanso di equivoci inizia tale e quale al ca­polavoro di Melville: «Chiamatemi Ismaele»,ma siamo nel 2099.Al po­sto del PeQuod c’è l’enorme astro­nave Cetus 7 (un’opera che i nostri Bach e Beethoven non si sarebbero mai sognati, osserva il saggio alieno telepaticoQuell),alpostodellabale­na c’è una cometa di nome Leviata­no, al posto di Achab c’è un capita­no cieco e folle che vuole sorprende­re alle spalle la cometa assassina, lunga milioni di chilometri e in rot­ta di collisione con il pianeta Terra. Anche se «non si può sorprendere una cometa, signore. Non vive, non gliene importa» e il capitano giusta­mente risponde: «Ma io vivo, a me importa».

È una guida intergalattica per au­tostoppisti ma con la profon­dità esi­stenziale di Beckett e l’ironia malin­conica di Mark Twain, con disquisi­zioni sui massimi sistemi tra inse­gnanti di filosofia robot ( il robot Pla­tone, il robot Aristotele, il robot So­crate), il problema di «come infor­matizzare un miliardo di decisioni più una», «diecimila biberon riem­piti­di una sostanza vischiosa strao­mogenizzata per bambini spaziali » e «macchinarichetrasformanoilsu­dore in acqua dolce». Non crona­che marziane ma stavolta interga­lattiche, dove i suoni della Terra continuano a vagare negli spazi si­derali per miliardi di anni luce: i di­scorsi di Hitler, l’incendio dell’Hin­denburg, masse che gridano terro­rizzate, masse che acclamano. «Nessun suono, una volta prodot­to, potrà andare veramente perdu­to. Restano tutti impigliati ma in sal­vo in nubi elettriche e, con un tocco, se li troviamo, possiamo ricatturare echi di guerre tristi e dimenticate, di lunghi estati e dolci autunni».
Intanto il capitano cieco, appeso a un cavo nel buio cosmico, attende il mostro, e la sua follia diventa un’altra metafora dell’uomo e so­prattutto della noia, quella noia che per Leopardi era «il più sublime dei sentimentidiquestomondo»,esen­za
la caccia al Leviatano non reste­rebbe nulla per cui vivere. «L’idea di noiose giornate che non hanno fi­ne, o che finiscono oziando, e di ran­cide foglie di tè in una tazza che non racconta di nessun omicidio, di nes­suno spargimento di sangue, e per­ciò nessuna vita- ecco cosa mi spez­za le ossa »dice il capitano.«Il rumo­re di una pagina di libro voltata mi spezzerebbe la spina dorsale. Le co­se semplici che si adagiano in corri­doi troppo puliti, troppo silenziosi, chegiaccionoinlettibenfattiesorri­dono sorrisi idioti! Oh, scampiamo­cene ».

Ecco perché naufragar è dol­ce in questo struggente fanta- mare dell’ultimo fantastico Ray esisten­ziale, dove per necessità «tutti gli uo­mini sono poeti- assassini nelle loro anime, vergognosi di farlo trapela­re ».

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