La metafora scelta da Andrea Camaiora per inchiodare alle proprie responsabilità la vasta area di pensiero che va sotto l'etichetta «moderati», è perfetta: la sindrome - da cui sono perennemente afflitti - del brutto anatroccolo. I moderati (che i progressisti di solito liquidano come «quelli di destra»), si vedono sempre rappresentati come incolti, gretti, rozzi. E a lungo andare, ecco il guaio, si convincono di esserlo. Per fortuna però Camaiora nel pamphlet Il brutto anatroccolo. Moderati: senza identità non c'è futuro (Lindau), spazzando via vecchi cliché, prova a tirare fuori dallo stagno paludoso l'anatroccolo, per riportarlo al centro della scena. Perché senza «moderati» l'Italia non va da nessuna parte.
E per farlo, Camaiora (giornalista, spin doctor, biografo di Gianni Baget Bozzo) si confronta con un gruppo bipartisan di intellettuali: da Giorgio Benvenuto a Massimo Bordin, da Rocco Buttiglione a Dario Franceschini. Il libro - che si dimostra essere una lezione molto utile in tempi di «caccia al voto moderato» da parte di tanti partiti - prima cerca una definizione precisa per la fluttuante categoria politico-culturale del «moderato»: e forse la migliore è: «colui che non antepone mai alcun pregiudizio ideologico al proprio impegno civile», ossia colui che, all'opposto del rivoluzionario, non sacrificherebbe mai il particolare, cioè l'uomo e la sua libertà, in nome dell'universale, cioè un ideale più alto, sempre pericoloso (la purezza della razza, l'uguaglianza proposta dal comunismo...). Poi si ricostruisce l'album di famiglia dei moderati: i cattolici che fecero l'Unità d'Italia, De Gasperi, Pannunzio, Del Noce, fino a Montanelli, Falcone e Borsellino...). Poi si indagano le ragioni dell'incapacità dei moderati di usare il cinema, la televisione, la musica e la letteratura «per scoprirsi colti, belli e charmant» come invece sa fare splendidamente la sinistra (che ha scippato molte icone pop).
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