Il Montanelli "sportivo"che raccontò la rinascitadell'Italia dopo la guerra
8 Maggio 2021 - 08:10Nel 1947 e nel 1948 Indro Montanelli seguì da cronista per il "Corriere" due edizioni del Giro d'Italia. Ricostruendo attraverso la corsa rosa lo spirito profondo dell'Italia del dopoguerra
Il Giro d’Italia? Una “domenica perenne”. Gino Bartali? Il De Gasperi della carovana rosa. La bicicletta? Il giusto mezzo tra artigianato e capitalismo. Sono solo questi alcuni dei sottili e interessanti paragoni che si possono cogliere tra la corsa ciclistica più nota d’Italia e l’anima profonda del Paese leggendo le corrispondenze che Indro Montanelli realizzò seguendo le edizioni del 1947 e del 1948 del Giro d’Italia. Finita la seconda guerra mondiale, temporaneamente “esiliato” dalla cronaca politica e internazionale a causa del suo passato fascista – sebbene avesse alle spalle anni da “critico” del regime – Indro da Fucecchio non visse in ogni caso l’invio al seguito della “Corsa Rosa” come una retrocessione. E la raccolta degli articoli realizzati per la testata di Via Solferino curata dal giornalista della Gazzetta dello Sport Andrea Schianchi, Indro al Giro – Viaggio nell’Italia di Coppi e di Bartali, lo testimonia.
Montanelli intuì che nella corsa ciclistica si condensavano le emozioni, i sentimenti e le aspettative di un’Italia che viveva i difficili anni della ricostruzione, materiale e morale, dopo i lutti del secondo conflitto mondiale e riconosceva nel Giro uno straordinario fattore di unità nazionale. Assieme al Grande Torino di Valentino Mazzola, tragicamente scomparso nel disastro aereo di Superga del 4 maggio 1949, Fausto Coppi e Gino Bartali erano i simboli sportivi di un Paese che rinasceva. Nel 1946 il comitato organizzatore, presieduto da Bruno Roghi, direttore de “La Gazzetta dello Sport”, volle con tenacia e testardaggine superare ogni ostacolo fisico e psicologico per dare all’Italia la sua competizione sportiva prediletta, si scontrò con immani difficoltà logistiche, legate alla totale devastazione della viabilità italiana a seguito del conflitto, ma riuscì infine a disegnare un percorso allo stesso tempo competitivo e simbolico. Toccando tutte le province più colpite dal conflitto, portando il Giro a subire un assalto di facinorosi filo-titini a Trieste, ma lanciando in ultima istanza il doveroso messaggio di unità nazionale che era intenzionato a trasmettere.
Montanelli racconta dunque i Giri della nuova speranza dopo quello, simbolico, della ripartenza. Mutatis mutandis quanto di cui avremmo bisogno in un’Italia che prima ancora dalla pandemia di Covid-19 è messa a terra dalla mancanza di fiducia del futuro. Il Giro d’Italia rappresentò per Montanelli un osservatorio privilegiato sulla società e gli stili di vita degli Italiani nell’immediato Dopoguerra dato che il futuro fondatore del Giornale, nota Schianchi nell’introduzione al testo, capì la valenza dell’evento sportivo: “Montanelli non si ferma alla superficie, approfitta del Giro per raccontare l’Italia. Ovviamente come appare a lui, non nascondendosi dietro la facile retorica e sempre esprimendo giudizi che, il più delle volte, e nel perfetto stile del personaggio, sono controcorrente”.
Montanelli non è un esperto di cronaca sportiva, e unì una sincera passione per determinate fasi della corsa a un graduale passaggio verso un’introspezione “sociologica” dell’italiano del 1947 e del 1948. Che non corrispondeva solo al diseredato privo di speranze e cinico della filmografia neorealista ma incarnava, invece, una voglia di normalità e seppe cogliere il messaggio lanciato dal Giro, caleidoscopio dell’italianità, archetipo di un Paese che ama narrarsi diviso e frazionato nel particolarismo più di quanto sia in realtà. E la forza aggregatrice di una manifestazione sportiva che da oltre un secolo tocca paesaggi, città, borghi e sentieri di tutto il Paese come a fare da fil rouge di connessione testimonia quanto l’Italia possa, alla bisogna, riscoprirsi comunità.
Montanelli, liberale di formazione, nota lucidamente e con onestà intellettuale quanto la fase storica vissuta dal Paese imponesse il superamento di particolarismi e individualismi, ma non manca nelle sue cronache di elevare a protagonisti gli irregolari, i “corsari” della carovana rosa, i gregari anarchici in fuga per la vittoria di una tappa, non esclude punture di spillo agli organizzatori che per disegnare arrivi scenografici modificando i percorsi delle tappe hanno tarpato i sogni di gloria dei suoi beniamini. In particolare, Montanelli stigmatizza la scelta di far concludere la sesta tappa del Giro del 1948 nel bel mezzo dei Fori Imperiali a Roma: qui “gli scrupoli archeologici” degli organizzatori hanno impedito al suo prediletto corridore, il “gregario anarchico” per eccellenza Angelo Menon, di guadagnarsi una meritata vittoria a causa di un cedimento avvenuto proprio a poche centinaia di metri dal sipario conclusivo. Anarco-conservatore, testardo e cocciuto, mai chino ad ogni conformismo, Indro da Fucecchio non poteva non essere affascinato dal profondo dualismo del Giro: sfida collettiva e di squadra per le formazioni chiamate a partecipare, cimento individuale per ogni partecipante. In cui spesso veniva premiata l’anticonvenzionalità, il pensiero laterale, il rifiuto dell’appiattimento sulla mediocrità.
“Italiani, disobbedite, disobbedite sempre, anche al Giro d’Italia! È solo così che si mandano all’aria le dittature dei capitani”, dichiarò Montanelli dopo la dodicesima tappa del 5 giugno 1947. Il manifesto della vita anticonvenzionale del maestro del giornalismo italiano del Novecento riassunto in poche battute corrispondeva anche all’invito a respirare la nuova aria di libertà che il Paese poteva respirare dopo la fine della guerra e la caduta del fascismo.
Incarnata pienamente dalla lunga domenica perenne avente in palio la maglia rosa.