La Menorah è il Sacro Graal dell'ebraismo. Secoli, anzi millenni di ricerche. Secoli, anzi millenni di ipotesi campate sull'aria fina della devozione. Secoli, anzi millenni di rivendicazioni, saccheggi, guerre. Ma lui, il candelabro a sette braccia le cui fiamme ardevano nel Tempio di Gerusalemme, è sempre lì, nel territorio dell'inconoscibile, incastonato sul cuore di ogni figlio di Israele, ma invisibile e intoccabile.
Se le ultime «voci», autorevoli ma sempre «voci», come quella di Steven Fine, docente alla Yeshiva University di New York e direttore del Center for Israel Studies, lo vogliono custodito in Vaticano (il novello Papa Francesco sarà a conoscenza di questi rumors?), pescando nel vasto mare delle ricostruzioni storiche e dei revisionismi si trova di tutto. Una bella preda, guizzante e per la prima volta fresca di stampa in Italia, è Il candelabro sepolto di Stefan Zweig (Skira, pagg. 184, euro 15, traduzione di Anita Rho). Scritto nel 1937, questo breve romanzo è, allo stesso tempo, una narrazione rabbinica e un'emozionante aavventura, una riflessione sull'inesauribile potenza della fede e un saggio filosofico (e psicologico) sui percorsi dell'autosuggestione.
Il protagonista, Beniamino Marnefesch, «esordisce» a sette anni a Roma, quando accompagna in una triste processione un gruppo di anziani che scortano verso il mare la Menorah, razziata, con migliaia e migliaia di altri oggetti preziosi, dai barbari di Genserico (l'anno è il 455). E chiude la propria permanenza terrena quasi alla soglia dei novant'anni, quando osa, al cospetto dell'imperatore bizantino Giustiniano, rivendicare come legittima proprietà del suo popolo errante la più sacra delle reliquie.
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