L'attore Edoardo Sylos Labini prosegue nel suo itinerario teatrale fuori dagli schemi. Lo spettacolo Gabriele d'Annunzio, tra amori e battaglie, scritto in collaborazione con Francesco Sala e Giordano Bruno Guerri, riprenderà il 4 aprile al Teatro Duse di Bologna, poi sarà all'Aquila, Napoli, Catania e Firenze. In ottobre però è prevista anche una novità assoluta, destinata ad aprire la stagione del Teatro Manzoni di Milano: Nerone, duemila anni di calunnie, soggetto dalla biografia dell'imperatore scritta da Massimo Fini, sceneggiatura in collaborazione con Pietrangelo Buttafuoco. Tra gli interpreti, oltre a Sylos Labini, Leopoldo Mastelloni nel ruolo di Seneca, ambiguo mentore di Nerone.
Balbo, Marinetti, d'Annunzio: qual è il filo che lega i personaggi che mette in scena?
«Sono uomini spesso ma non sempre riconducibili al mondo della destra, che hanno lasciato un'impronta indelebile nella cultura italiana e non solo. Talvolta, come nel caso di Balbo o di Marinetti, sono stati al centro di pregiudizi ideologici, almeno in un certo tipo di storiografia. Io comunque li rappresento per come erano».
Si incontrano difficoltà nel proporre questo repertorio?
«Purtroppo sì. Se non fai mistero di non stare a sinistra, ci sono problemi. Perfino quando ho realizzato Disco Risorgimento, su Mazzini, padre dell'Italia repubblicana, sono arrivate le minacce dei centri sociali».
In cosa risiede l'attualità di questi personaggi?
«Prendiamo d'Annunzio. Si è inventato la cultura come forma straordinaria di marketing. È stato il primo grande comunicatore. Se fece della propria vita una opera d'arte, fu anche per venderla meglio. Ma ciò non toglie nulla alla sua genialità come scrittore. Oggi tutto è diviso in compartimenti stagni, mondo culturale e politica sembrano appartenere a galassie lontane. L'arte-azione futurista, messa in atto da D'Annunzio, colmava questa distanza. D'Annunzio ha fatto politica da grande showman».
Anche Nerone fu uno showman...
«Sì, e non solo. Come ha mostrato Massimo Fini, Nerone fu infangato dalla storiografia ufficiale. Non fu lui, tra l'altro, a bruciare Roma. Contrariamente a quanto si pensa, fu un grande imperatore-artista. Sappiamo che rivoluzionò le arti sceniche, anche se la sua produzione è stata cancellata. Come politico, fece grandi riforme, in particolare quella monetaria e fiscale. Di fatto abbassò le imposte al popolo, tolse potere all'oligarchia, combattè contro le lobby del Senato. Gliela fecero pagare».
Era un populista, lo ammetta.
«Quando un uomo politico ha grande consenso, e non si chiude nella propria cerchia, scatta l'accusa di populismo».
Eppure fu scaricato dai suoi stessi sostenitori.
«Ieri come oggi c'è diffidenza verso l'uomo nuovo, che mette in pericolo i privilegi consolidati. Ma noi racconteremo anche la corte di lacchè che tradì Nerone perché lui le aveva sottratto troppo potere. Spinse l'acceleratore per farlo fuori. Gli ultimi anni della vita di Nerone furono tremendi. Anche il suo maestro di un tempo, Seneca, congiurava contro di lui».
Come lo misero a tacere?
«Gli strumenti per mettere a tacere gli uomini nuovi sono sempre gli stessi: la diffamazione, la propaganda avversa, la giustizia. Fu spinto al suicidio. Questo comunque sarà uno spettacolo sul potere. Molte cose sono cambiate, oggi gli equilibri interni di molti Paesi, inclusi il nostro, sembrano dettati dall'estero, ma i colli di Roma restano un posto pericoloso».
I rapporti tra cultura e politica restano problematici, specie a destra.
«A destra, gli intellettuali sono individualisti, non sono portati ad aggregarsi.
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