Oriana Fallaci, lo "scrittore" che raccontò la storia e il "sesso inutile"

Prima reporter di guerra italiana, tra le più importanti testimoni della storia di fine secolo, Oriana Fallaci ha intervistato le personalità più importanti della sua epoca. È stata una grande scrittrice e una grande giornalista, ma prima di tutto è stata una donna straordinaria.

Oriana Fallaci, lo "scrittore" che raccontò la storia e il "sesso inutile"

Lo chiamava il “sesso inutile” il suo. Il femminile, il gentilsesso. Ma come è vero che nell’autocritica - da sempre - si cela il principio della grandezza egoica, è vero anche che lei, Oriana Fallaci, s’era proprio imposta fin da bambina di diventare “scrittore”, non scrittrice. Mandando al diavolo già in principio la retorica del futuro, quella delle neo-lingue inclusive, dello schwa e di chi tenta di usarlo a suo discapito. A una maledetta toscana come la Fallaci - "la", sì, con l'articolo determinativo femminile - queste cose non sarebbero mai importate. Del resto chi ha fatto la guerra come staffetta partigiana appena dodicenne, chi ha raccontato la guerra come nessun altro e nessun'altra avevano fatto, portandola a diventare la più famosa giornalista e reporter di guerra del mondo, certe “battaglie” non le combatterebbe mai. Ne mai le avrebbe combattute. Le avrebbe lasciate a chi non aveva di meglio da fare. "Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico", sosteneva.

Perché Oriana Fallaci è stata una giornalista - una grande giornalista -, prima di consacrarsi come scrittore. “Solo un modo per guadagnare dei soldi”, diceva, e lo sa bene chi nutre le stesse ambizioni. "Io più che il giornalista ho sempre pensato di fare lo scrittore", scriveva di sé, “Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore, e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi, da un discorso che sentivo fare a casa: 'Eh! Scrittore, scrittore! Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e arrivare a vendere un libro?'".

L’ha scoperto da sola. Con la tenacia di chi inizia a scrivere quando è ancora a scuola. E continua. Continua anche quando s'iscrive alla facoltà di Medicina dell’Università di Firenze. I suoi libri verranno tradotti in più di trenta paesi. I suoi articoli invece, quando era appena ventenne, compariranno sul Mattino, su Epoca, sull’Europeo. Iniziò a scrivere di “costume”, come credevano le si addicesse - celebre rimase il suo articolo di Christian Dior a Firenze -. Finì per intervistare la moglie dello scià di Persia, Soraya Pahlavi, e a scrivere il suo primo libro “I sette peccati di Hollywood” (1958). La prefazione la firmò niente meno che Orson Welles. Era diventata "scrittore". Poteva ben dirlo.

Arrivarono così “Il sesso inutile” (1961), un resoconto sulle donne che aveva incontrato in Medio Oriente nel quale esprimeva la ferma posizione critica e autocritica nei riguardi delle molte donne che perseguono uno sbagliato modo di “vivere” tanto nelle latitudini dove valgono quanto un cammello, quanto nelle longitudini dove il matriarcato tossico produce i suoi effetti egualmente nocivi. Esattamente come il patriarcato. Come accadeva già allora dall’altra parte dell’oceano, in America. “Penelope alla guerra” (1962) sarà il suo primo romanzo. "Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere?", le ripetevano.

La risposta l'ebbe dopo i primi quattro traguardi e successi editoriali. Quando acquistò una grande casa in Toscana per lei e suoi genitori - gli stessi che le avevano posto fin da bambina quella domanda difficile e premurosa per metterla in guardia - e una a New York, dove si trasferì nel 1963. “Per non assuefarsi, non rassegnarsi, non arrendersi, ci vuole passione. Per vivere ci vuole passione”, pensava Oriana Fallaci. Che dai grandi classici della letteratura che i genitori acquistavano a rate - e che lei leggeva da bambina sviluppando nel suo profondo la cosiddetta "passionaccia" - si ritrovava in quel trentottesimo piano dei grattaceli di Manhattan. In uno chic che di "radicale" aveva qualcosa di vero: i viaggi in Vietnam come reporter i guerra, dal 1967 al 1975.

Lì sarà spettatrice appassionata e devastata della peggiore guerra che gli americani abbiano mai combattuto, della vita quotidiana di una Saigon dantesca, dei bombardamenti, degli interrogatori, delle imboscate dei Viet Cong che sembravano fantasmi nella giungla. Scriverà queste verità strazianti nel libro reportage che ne verrà, "Niente e così sia" (1969). E da quel momento per lei la guerra sarà "...solo una sporca tragedia sulla quale non puoi che piangere. Piangi quello cui negasti una sigaretta e non è tornato con la pattuglia; piangi su quello che hai rimproverato e ti s'è disintegrato davanti; piangi su lui che ha ammazzato i tuoi amici".

La bambina e l'eco degli eroi

A Oriana Fallaci gli eroi sono sempre piaciuti. Furono i partigiani a forgiarne il carattere ribelle e sprezzante di un pericolo che ha sempre riconosciuto e rispettato: "La mia fanciullezza è piena di eroi perché ho avuto il privilegio di esser bambina in un periodo glorioso. Ho frequentato gli eroi come gli altri ragazzi collezionano i francobolli, ho giocato con loro come le altre bambine giocano con le bambole. Gli eroi, o coloro che mi sembravano tali, riempirono fino all’orlo undici mesi della mia vita: quelli che vanno dall’8 settembre 1943 all’11 agosto 1944, l’occupazione tedesca di Firenze. Credo di aver maturato a quel tempo la mia venerazione per il coraggio, la mia religione per il sacrificio, la mia paura per la paura". Così una donna non diviene né un cammello né una matriarca: diviene essere umano. Puro e semplice.

Per parte sua poi, i colpi di una pistola li aveva sentiti sulla sua pelle quando rimase gravemente ferita a Città del Messico durante la repressione di una manifestazione studentesca. La credettero morta e la portarono all'obitorio. Ma morta non lo era, forse per qualche istante nel regno dei morti ci si era trovata e sentita. Ne è risorta per poter raccontare meglio cosa si prova. Non per sentito dire, come piace fare ai nostri tempi.

Negli anni Settanta la Fallaci si afferma ancora come grande giornalista politica, racconta il conflitto arabo-palestinese, la guerriglia condotta contro le dittature in Sudamerica, l'assassinio di Robert Kennedy. E mette in fila una serie straordinaria di interviste "che non lasciano respiro" al lettore come all'intervistato, incontrando le personalità più importanti della sua epoca: Ayatollah Khomeini, Henry Kissinger, Golda Meir, Pasolini, Gheddafi, Andreotti, Berlinguer e Fellini, solo per citarne alcuni. Tutte insieme verranno inserite nel libro "Intervista con la storia" (1974). Tra queste compariva anche quella fatta a Alekos Panagulis, l'intellettuale rivoluzionario greco imprigionato e torturato dai colonnelli di cui si era innamorata e che sarà il suo "compagno" di vita. Anche se morirà presto - ucciso su mandato secondo lei - in un tragico incidente stradale. Nel 1979 pubblicherà un libro dedicato interamente a lui, e a quelli come lui, dal titolo "Un uomo".

Dopo una lunga pausa, la penna irosa e vera della giornalista che trovava sempre meno appeasement tra le fila dei suoi detrattori, torna ad occuparsi di guerra. Scrive della guerra civile scoppiata in Libano, del fondamentalismo islamico e delle sue derive, e ancora una volta di soldati mandati lontani da casa. Questa volta sono i nostri, il contingente inviato in Libano quando le missioni iniziavano a prendere l’appellativo di peacekeeping, e le guerre, vere o per procura, assumevano un altro aspetto: più oscuro, più celato, ma sempre totale e tentacolare. Il libro si intitolerà “Insciallah”(1990). Poi l’Iraq, e quelle nubi nere dei pozzi di petrolio bruciati in Kuwait la cui combustione produce tanta cenere tossica nera e vischiosa, da oscurare il cielo a mezzogiorno. Da far calare la notte. Ne respira tanta da spaventarsi, più che in Vietnam sotto le bombe.

Nel 1992 Oriana Fallaci scopre di avere il cancro, o "l’Alieno" come cominciò a chiamarlo lei. Lo temeva e allo stesso tempo lo fiaccava con la sua arguzia, mentre era impegnata a lavorare a quello che sarebbe stato il suo ultimo libro. Un lungo viaggio che voleva tracciare le origini e la storia della sua famiglia, dalla quale aveva ricevuto in dono quello spirito temprato e ardimentoso. Non fece in tempo. Verrà pubblicato postumo col titolo “Un cappello pieno di ciliege”. Lo anticiperà invece, inaspettatamente, un’irosa trilogia rivolta a motivare e infiammare l’Occidente contro il terrorismo islamico che nel 2001, colpendo le Torri Gemelle a New York, dove ella si trovava, aveva di fatto cambiato il mondo. Le sinistre benpensanti del mondo la osteggiarono come avevano già fatto in passato. Come quelle femministe che l’avevano tanto vituperata e che lei incalzava sempre con affondi ancora validi - nel contenuto e nelle forma -. "Ricordate gli anni in cui anziché ringraziarmi d’avervi spianato la strada cioè d’aver dimostrato che una donna può fare qualsiasi lavoro come un uomo o meglio d’un uomo, mi coprivate di insulti?", scriveva, "Com'è che non organizzate mai una abbaiatina dinanzi all'ambasciata dell'Afghanistan o dell'Arabia Saudita o di qualche altro paese musulmano?". Mistero delle fede, quale che sia la vostra confessione. Morirà solo 5 anni dopo. Il 15 settembre del 2006.

La morte di uno scrittore

Oriana Fallaci ha lasciato questo mondo per colpa di quel male incurabile cui non diamo la soddisfazione d’essere nominato, almeno noi altri. Perché lei lo diceva eccome di averlo. Era tornata per l'ultima volta nella sua Firenze. Città che divenne di Dante, dei Medici, di Macchiavelli. E di Oriana Fallaci. "Mi ritengo comunque una fiorentina pura. Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando mi chiedono a quale Paese appartengo, rispondo: Firenze. Non: Italia. Perché non è la stessa cosa", aveva scritto sull’Europeo presentandosi ai lettori quando aveva vent’anni. Non s’accontentava d’essere una maledetta toscana, come voleva Curzio Malaparte, uno dei suoi maestri: era fiorentina proprio. Prossima a congedarsi dal mondo, all’amico Silvio Berlusconi disse: "Voglio morire nella torre dei Mannelli guardando l'Arno dal Ponte Vecchio. Era il quartier generale dei partigiani che comandava mio padre, il gruppo di Giustizia e Libertà. Azionisti, liberali e socialisti. Ci andavo da bambina, con il nome di battaglia di Emilia. Portavo le bombe a mano ai grandi. Le nascondevo nei cesti di insalata". Non fu possibile.

Di questa donna straordinaria resta assieme a un patrimonio per la storia e la letteratura, un nitido pensiero: "Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito".

Oriana Fallaci è sepolta nel cimitero degli Allori, accanto ai suoi genitori: Edoardo, partigiano, e Tosca, una donna che, secondo la figlia, in fatto di coraggio non aveva nulla da invidiare al marito. Sulla sua lapide compare scritto semplicemente “Oriana Fallaci – Scrittore”.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica