«Con una partita di baseball vi racconto l’età della crisi»

«Con una partita di baseball vi racconto l’età della crisi»

«Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia». La citazione frulla in testa per tutto il tempo in cui leggiamo L’arte di vivere in difesa di Chad Harbach (Rizzoli, pagg. 520, euro 20). Perché, come nella Leva calcistica del ’68 di De Gregori, qui lo sport, il baseball, è soltanto una magnifica struttura in cui collocare lampi e tuoni esistenziali. Il libro di questo esordiente del Midwest - 34 anni, fondatore della rivista letteraria n+1 - che ha fatto strappare i capelli per la goduria a Jonathan Franzen e John Irving, venne comprato dalla Little, Brown per 665mila dollari, è stato inserito tra le 5 migliori opere del 2011 dal New York Times, ha fatto pensare alla HBO di trasformarlo in una serie tv e ha portato la Paris Review a paragoni con Don DeLillo. La stessa Paris Review ha scritto che si tratta di «un romanzo sul baseball tanto quanto Moby Dick è un romanzo sulla pesca alle balene». Accostamento appropriato visto che Melville è il faro esplicito di Harbach in un esordio centrato sui legami virili e basato anche su un’esperienza di 12 anni trascorsi tra prima e seconda base: «Ma cominciai troppo presto, ero sempre il più giovane della squadra e a 17 anni ho smesso». I protagonisti qui paiono essere il giovanissimo talento del baseball Henry Skrimshander e il suo capitano «Schwartzy», ma poi, a guardar bene, gran parte mondo di Harbach, laureato ad Harvard, si rispecchia in quello del rettore del college, Guert Affenlight: «Adorava vagare per ore tra gli scaffali della biblioteca, e spesso trascurava lo studio e le proprie mansioni per curiosare… A trent’anni Affenlight era un signor Nessuno; a trentasette dibatteva con Allan Bloom sulla CNN». Ma tutti i personaggi di Harbach hanno una maschera e un volto. E se il baseball è la linea orizzontale del romanzo, la maschera, la costante paura di una crisi è quella verticale, il volto. E mai tema fu più attuale.
Che cosa ha da dirci il baseball su come affrontare questi tempi difficili?
«La paura del successo e la paura del fallimento sono due demoni gemelli. Non solo per Henry come atleta, ma per tutti i personaggi, quando entrano in una fase nuova della loro vita. Qualcuno mi ha detto che questo libro parla del “sogno americano” e in qualche modo concordo. I protagonisti avrebbero la possibilità, per i loro talenti, perché frequentano un ottimo college, di salire nella scala sociale. Ma scoprono ben presto che non è così semplice. Che le implicite promesse della scuola non necessariamente si avverano nel mondo reale. E che anche se avranno successo, si lasceranno dietro un sacco di persone. In questo senso, il romanzo è il risultato del momento di tensione economica per i giovani, in cui le speranze e le promesse sono sempre le stesse, ma le prospettive, anche per i più fortunati, sembrano mancare».
Qual è il suo primo ricordo legato al baseball?
«Avevo sei anni quando mio padre mi portò a vedere la prima partita. Ero sopraffatto dalla grandezza dello stadio, dal campo, dalla folla, da ogni cosa. È un episodio che ricordo bene, nonostante io di solito faccia fatica a ricordare la mia infanzia. Oggi mi piace assistere al gioco più che guardarlo in tv e vado a vedermi le partite all’università della Virginia, vicino a casa. È una delle poche occasioni in cui mi rilasso davvero».
Così giovane e così ammirato dai più importanti autori americani contemporanei. Si sente mai oppresso dalla competizione, come accadeva a una delle sue icone, David Foster Wallace?
«Penso che una certo tipo di competizione tra scrittori possa essere molto produttiva. E costituire la prova di una scena letteraria sana. Desiderare di scrivere il migliore dei libri possibili e paragonarlo con quelli degli altri, con massime onestà e introspezione e una giusta dose di ego e ambizione: penso che questo sia il giusto approccio».
È questo che pensa quando legge il libro di una collega?
«Leggi e ti dici: “Wow, è davvero buono!” E lo invidi. E ti chiedi: “Posso fare di meglio? Magari ce la faccio. Anzi, in effetti, devo farcela”. E ti chiudi a chiave per qualche anno e ci provi. In questo genere di competizione non c’è niente di sbagliato e anzi spesso è con gli amici che ti trovi a gareggiare, perché hanno scritto le cose che rispetti di più».
E così ha sfornato un esordio in «soli» nove anni…
«Undici, se ci mettiamo le revisioni e l’editing. In parte ci ho messo tanto perché per pagare le bollette dovevo anche lavorare e perché mi occupavo di n+1. Ma anche perché ho cominciato a 24 anni ed ero poco pratico. Mi sono reso conto da subito che non ero pronto per scrivere un buon romanzo e che avrei imparato come fare solo scrivendolo. Onestamente, se avessi saputo prima che ci sarebbero voluti 11 anni, forse non avrei continuato».
Anche lei pensa come Franzen gli ebook siano una catastrofe per la letteratura?
«È un tema complesso. Da molto tempo si profetizza “la fine della lettura”. Ma non accade mai.

Penso però che l’editoria digitale presenti alcuni pericoli: primo fra tutti, la pressione sui prezzi. Se si diffonde la strategia di vendere libri a un dollaro o due, come faranno gli scrittori a conservare un margine di guadagno rispettabile?».

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