«Il pensiero (troppo) debole ha generato il populismo»

«Il pensiero (troppo) debole ha generato il populismo»

E ra il pupillo di Gianni Vattimo. Adesso dice che se ci sono stati Berlusconi e Bush è colpa del pensiero debole. Il postmoderno, frullatore di qualsiasi certezza, ha frullato anche se stesso e i suoi sogni d'emancipazione. Il New Realism di Maurizio Ferraris è nel bene e nel male sulla bocca di tutti i filosofi. E i debolisti a rischio rottamazione studiano la controffensiva, a partire dall'incontro di lunedì scorso a Roma. Perché per i discepoli di Foucault «sapere è potere». E il professore di Torino ha il quasi-monopolio sulle Terze pagine.
All'incontro di Nova Spes si doveva parlare del binomio stampa&filosofia e invece si è parlato solo di Lei. Proviamo allora a parlare con Lei di stampa e filosofia. Per Carlo Sini il New Realism è solo un dibattito «giornalistico». L'attributo la offende?
«Non mi offende per niente, credo che la dimensione pubblica sia costitutiva della filosofia. Era così per Platone e per Kant, e Hegel è stato addirittura direttore di un giornale. Mi chiedo cosa avrebbe detto Sini...! Scherzi a parte (non posso credere che l'amico Sini dicesse sul serio), non c'è ragione di preoccuparsi se una teoria è dibattuta anche sui giornali. Il Nuovo Realismo peraltro è stato anche al centro di convegni internazionali a cui hanno partecipato grandi del pensiero come Eco, Putnam, Searle. C'è da preoccuparsi, se mai, quando una dottrina filosofica è conosciuta solo dai tuoi studenti che devono passare l'esame».
Andiamo alla polemica. Perché tanto livore contro i postmodernisti?
«Quale livore, di grazia? Trent'anni fa ero postmodernista. Ma un medico che va in pensione senza aggiornare le nozioni imparate all'università non è un buon medico, e lo stesso vale per un filosofo. Nessun livore, dunque, se mai tenerezza. E soprattutto necessità di capire e di storicizzare, per compiere quella che Hegel chiamava Aufhebung: superare gli errori conservando il molto che c'era di buono».
I suoi critici - Francesca Rigotti, Salvatore Veca, Giancarlo Bosetti - non si riconoscono nel ritratto da Lei confezionato del postmodernista-tipo. Sanno benissimo anche loro, dicono, che esistono le montagne e le pantofole. Quel che respingono è l'assolutizzazione di Verità e Realtà che dipendono dai nostri schemi.
«Fanno bene a non riconoscersi nel ritratto perché, in tutta sincerità, non parlavo di loro (e non ci pensavo nemmeno: ignoro le loro posizioni, cercherò di documentarmi). Parlavo di filosofi come Nietzsche, Heidegger, Gadamer, Foucault, Rorty, Vattimo, che, con diversi accenti, hanno sostenuto che la realtà dipende in ultima istanza dai nostri schemi concettuali».
Gli autori che cita sono nel loro pedigree. E sono stati tutti grandi critici dell'ideologia. Lei però li accusa di avere partorito la dittatura delle opinioni. Non è un colpo basso?
«Purtroppo le buone intenzioni non bastano nemmeno nei regali (ce ne accorgiamo sotto Natale) figuriamoci nelle teorie. Succede alle grandi teorie quello che succede alle invenzioni, e cioè che possono avere degli sviluppi non previsti dai loro inventori. Chi ha inventato il telefono pensava che sarebbe stato un modo per sentire i concerti a casa su abbonamento. Chi ha inventato il postmoderno non pensava che avrebbe portato al populismo. Non è colpa dell'inventore, ma sarebbe irresponsabile non cercare di capire perché si sia prodotto un simile effetto indesiderato».
ll postmodernismo è da buttare perché relativizzando e tutto ha generato mostri demagogici. Ma così scegliamo una teoria non in base alla sua verità, ma alla sua funzionalità per la società giusta. Non è un argomento da filosofo pragmatista?
«Mi sembra ovvio che, per ciò che riguarda il mondo sociale, si debbano proporre delle teorie che assicurino una società giusta. Provi a pensare il contrario, proporre delle teorie che assicurino una società ingiusta… Se inoltre si considera che la relativizzazione del mondo naturale proposta dal postmodernismo non è neanche vera, mi chiedo proprio perché dovremmo tenerci il postmodernismo!».
Lei divide il mondo in «oggetti naturali» e «oggetti sociali». Il mondo sociale, affermano i suoi critici, è una «riserva indiana» dove si può ermeneutizzare. Un confine tracciato con l'accetta, dicono. E poi come si decide chi sta di qua e chi di là?
«Ho speso quattrocento pagine, in Documentalità, per raffinare le differenze tra naturale e sociale, e per argomentare che si tratta di scegliere caso per caso, visto che il lavoro filosofico incomincia lì. E lo ripeto, più concisamente ma in tutta chiarezza, nel Manifesto del nuovo realismo».


Scegliere caso per caso non equivale a interpretare? Non sarà in fin dei conti un po' postmodernista anche lei?
«Il postmoderno non ha mica il monopolio dell'interpretazione! Direi anzi che ne ha parlato sempre ma non l'ha praticata mai, visto che ha detto che tutta la realtà (naturale, sociale, ideale) senza distinzione, è socialmente costruita. Questo non è interpretare, è enunciare un articolo di fede, come quando si dice non esistono fatti, ma solo interpretazioni».

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