Perbene, «civile» e adulatoria Ecco la non cultura da salotto

Perbene, «civile» e adulatoria Ecco la non cultura da salotto

A me fa davvero orrore questa cultura perbene dove sono tutti buoni per partito preso, che in genere è un partito vero e proprio anche se poi nessuno si candida, almeno per ora. Già l’Italia intellettuale è quella che è, tristemente divisa in salotti: il salotto di Repubblica, il salotto della Stampa, il salotto del Corriere della Sera, tutti ambientini educati dove non scappa mai uno stronzo, mai. Figuriamoci uno stronzo che per esempio, en passant, abbia scritto un capolavoro. Tipo un Céline che se incontrava Sartre gli sputava in faccia. Tipo un Nietzsche che a Vito Mancuso gli avrebbe spaccato una sedia in testa, come capitò al prete che voleva convertire il superuomo al cristianesimo.
Invece quante persone perbene, quanta brava gente e venerabili maestri aprono bocca in nome della «società civile» e con libri simili a messali, quelli che prima o poi passano alle Invasioni Barbariche di Daria Bignardi o a Che tempo che fa di Fabio Fazio, tanto ma quali barbari e che tempo volete che faccia.
Come la «Repubblica delle idee», il festone organizzato da Repubblica a Bologna, dove le idee sono quelle utili a migliorare il mondo, l’importante è che qualsiasi dibattito sia a favore di qualcosa: per i terremotati, per gli esodati, per gli immigrati, per il Sud, per le quote rosa, per il welfare, per l’economia, per la democrazia. E che ci si possa adulare e vicenda: ah, quant’è profonda lei, signora Scalfari, e anche lei come è buona, signora Zagrebelsky. Neppure all’Azione Cattolica o a Famiglia Cristiana sono così fissati con il bene, neppure i Testimoni di Geova sono così petulanti nel volerti inculcare le loro ricette per la salvezza del mondo, neppure in un convento sono così asessuati.
Witold Gombrowicz li ha descritti benissimo con cinquant’anni di anticipo: «Ognuno di loro finisce dove comincia il suo vicino, vale a dire poco lontano. Sono limitati da se stessi, dalla loro stessa folla». Mentre Leopardi ancora prima pensava che «costante giudizio della moltitudine è che chiunque possa eleggere, elegga di esser buono. Gli sciocchi siano buoni, poiché altro non possono». Insomma, Proust non sarebbe mai andato bene, c’era la prima guerra mondiale e se ne fotteva del popolo, scriveva la Recherche. Cervantes troppo guerrafondaio, Shakespeare troppo aristocratico. Anche i surrealisti, ancorché marxisti, sarebbero stati troppo onirici, poco pratici, forse poteva andare bene un Picasso, Guernica ma come sfondo a un monologo di Marco Paolini, per insegnare l’orrore del nazismo, e magari da lì arrivare a una condanna del berlusconismo. Per non parlare di Sade, per carità, chissà cosa avrebbe fatto a Concita De Gregorio se l’avesse sentita parlare.
Non è colpa di Hegel e Kant, quelli li legge solo Umberto Eco, piuttosto c’entrerà ancora l’impegno, il solito riflesso condizionato dell’intellettuale organico, e più in versione Jovanotti che Adorno o Sartre, tipo «una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa». Tipo anni luce dalle gioventù bruciate e dalle beat generation, al massimo i giovani puliti di Servizio Pubblico o la redazione dei giovani di Pubblico che seguono Telese o la Resistenza raccontata dalla giovane Paola Soriga o Michela Murgia che prega Ave Mary.
È il cocktail buonisticamente annacquato della somma delle peggiori culture novecentesche totalitarie, fascismo e comunismo, perché hanno inoculato che la cultura è politica e filantropia o non è niente. Un dipartimento Scuola Educazione perenne, la biblioteca dello Stato Etico, il Sessantotto mixato con lo spirito del boyscout ecumenico veltroniano, per cui ogni discorso «culturale» è finalizzato all’utile, al collettivo, al «Noi» veltroniano, mai all’io individuale, e quindi tutto può, anzi deve, diventare un ritrovo, un convegno, un appello, una lagna perbenista per migliorare il mondo o almeno aiutare le vecchiette a attraversare la strada.
Io non scherzo quando dico che il mio intellettuale di riferimento è diventata Selvaggia Lucarelli, bella, sexy e stronza al punto giusto, una che scrive bene e scrive a Diaco «Sei un leccaculo» senza mezzi termini. Molto meglio della supposta cultura di una firma autorevole che ti rifila la sua supposta morale, puntando in vecchiaia a finire tumulata in un Meridiano anche se non ha mai scritto un’opera, anzi tanto meglio, si rilegano gli articoli in similpelle, l’ambizione dei notai. Tanto la cultura è una sfilata di nomi ridotti a santini, Pasolini e Primo Levi da citare con Falcone e Borsellino, a nessuno che scappi un Beckett, un Joyce, un Musil. Al limite tirano fuori Dante, letto dal buon Benigni. O il Vangelo, letto dal buon Mancuso. Alla fine ti fanno restare simpatico perfino Hitler.
È una cultura simile a una raccolta indifferenziata, dove l’art pour l’art è eliminata alla base, che è una base politica e straboccante di buoni sentimenti, per questo continuano a insinuare che Saviano si debba candidare e lui lì a smentire senza che si capisca perché no, non è meglio agire? Tra l’altro neppure Grillo si candida, perché è solo un comico, è cultura anche lui.


Non sono solo radicalchic, sono peggio: è gente che ha liofilizzato le reminiscenze della scuola primaria e del movimentarismo giovanil-senile in un brodino etico, ancora oggi inviterebbero Nietzsche e Gramsci purché firmatari dello stesso appello civile, e comunque dovendo scegliere terrebbero fuori Nietzsche, come già decise l’Einaudi a suo tempo, perché non poteva proprio stare in catalogo vicino a Gramsci neppure da morto, quello stronzo.

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