C’è stata un’epoca, che nel suo Eggs Benedict a Manhattan (Cortina editore, 242 pagine, 19 euro), Gian Piero Piretto colloca, sia pure con un punto interrogativo, negli anni Ottanta, in cui al ristorante andava di moda “il tris di primi”, da lui giustamente definito “abominevole”…Con certezza però io le farei risalire al decennio precedente, insieme con un altro “classico”, le “pennette alla vodka”, da Piretto ribattezzate, grazie all‘aggiunta del salmone, “pennette dello Zar” e egualmente assegnate al decennio edonista. Vale anche la pena ricordare che sempre in quegli anni Settanta dei nostri vent’anni, io e Piretto siamo della stessa generazione, un altro must dell’orrore culinario erano le “fettuccine mari e monti”, partorite credo dalla mente contorta di qualche trattorista della domenica.
Eggs Benedict a Manhattan ha come sottotitolo “ricette metropolitane di un professore poco ordinario”, e in effetti Piretto è uno slavista di tutto rispetto (Gli occhi di Stalin, sulla cultura visuale sovietica nell’era staliniana, Quando c’era l’Urss, ovvero una storia culturale dalla Rivoluzione d’Ottobre alla nascita della Federazione russa), ma eterodosso rispetto al canone accademico tradizionale, del tutto a proprio agio inoltre nelle grandi città dell’Occidente e non solo: “Forse perché sono nato in provincia, l’attrazione per le metropoli è sempre stata grande. Il perdermi in un contesto urbano fino ad arrivare a possederlo è stato fra le grandi sfide e passioni della mia vita”. Corollario a questa condizione esistenziale di fl^aneur, è il fastidio che Piretto nutre per “le tavolate chilometriche”, per l’ideale bislaccamente comunitario del “prendiamo tante cose diverse così assaggiamo tutto”, nonché la sua riluttanza a ricordare “momenti spiacevoli a tavola”, di solito legati alla presenza di “persone antipatiche”, troppo volgari o troppo protagoniste, il che poi è in fondo la stessa cosa.
Eggs Benedict a Manhattan è corredato con le foto di 60 ricette che accompagnano le esperienze di vita e di viaggio del suo autore, da San Francisco a Istanbul, da Mosca a Berlino, a Parigi: si va dalle uova che hanno dato il titolo al libro alla vatruska, che è una pagnottella alla ricotta amata dai russi, allo Yorkshire pudding, quel soufflé di pastella che è croce e delizia della cucina britannica. Se mi posso permettere un appunto, c’è nel libro un eccesso di cibo “studentesco”, panini, sandwich, frittelle, tramezzini, focaccette, e una scarsità, come dire, di tradizione da restaurant, il che non significa cuochi cinque stelle, ma quella che una volta si sarebbe definito cucina, e memoria, del territorio. E’ pressoché assente anche ciò che in una tavola come si deve non dovrebbe mai mancare, ovvero il vino, che sia la carta dei vini di un locale, l’enoteca o il bar à vin di una capitale, il suggerimento proveniente da un libro o da un autore…Infine, forse perché non in sintonia con un più personale “itinerario cultural-gastronomico”, a Eggs Benedict a Manhattan manca un reale approfondimento “bibliografico” nel senso di indirizzi e di riferimenti. Qualcosa c’è, ma è troppo poco.
Indipendentemente da questi rilievi, che in quanto personali lasciano un po’ il tempo che trovano, il libro è comunque pieno di cose interessanti e che gettano una luce insolita sull’ultimo trentennio del Novecento. Per fare un esempio, a fine anni Settanta nella Germania orientale della DDR comunista, Piretto si rende perfettamente conto “dell’insofferenza” di alcuni giovani colleghi dell’università Humbolt “per l’invadenza dei russi” nella vita culturale e non solo del Paese, al punto che era meglio evitare di usare il russo come lingua franca nei locali pubblici dei quartieri più alternativi…Tempo un decennio e quella DDR sarebbe franata insieme con il muro dietro al quale era stata edificata.
Ma anche l’Urss che Piretto conosce prima come studente di russo, poi come insegnante, è piena di scricchiolii. Alla Taganka, il più celebre e il più ambito dei teatri di Mosca, assiste alla messa in scena di Il Maestro e Margherita a opera di Jurij Ljubimov, e quando alla fine gli attori portano in scena la grande scritta “rukopisti ne gorjat”, i manoscritti non bruciano, viene giù il teatro sotto gli applausi ritmati alla maniera russa. Negli anni Ottanta, quando di quello spettacolo vengono proibite le repliche, ci sarà chi, racconta Piretto, trasformerà l’androne e le scale dell’abitazione di Bulgakov in un happening teatrale: scritte sui muri, musica, letture di brani, bevute…
Genericamente comunista, come in Italia negli anni Settanta poteva esserlo un ventenne di estrazione medio borghese, a metà del decennio successivo Piretto diverrà per Radio popolare il conduttore di un programma, Vaghe stelle dell’orso, ovvero “musica russa da Nicola I a Jurij Andropov” e poi, qualche anno dopo, fra le voci di Borderline, dove prestava la sua a un finto agente di viaggi russo, Vas’ka Alekseevic…
Di passata, viene da chiedersi come sia stata possibile la gigantesca sbronza ideologica di quell’Italia anni Settanta dove il più forte Partito comunista d’Occidente prosperava senza problemi dentro una nazione tanto edonista e consumista quanto capitalista, fiero di godere dei privilegi di quest’ultima, ma facendo finta di disprezzarli nel nome della rivoluzione e della diversità, la “questione morale” come estrema e finale piroetta di una dialettica ormai alla frutta. Il passo successivo sarà la dichiarazione di fede anticomunista di Valter Veltroni che si meriterà lo sberleffo del quotidiano comunista Il manifesto: “Facevamo schifo”…
La rappresentazione più plastica di quei concetti come nazione, patria, identità, comunità, che il marxismo-leninismo si era illuso di sradicare, paradossalmente Piretto l’ha avuta nella “Piccola Odessa” di New York, “una piccola Unione Sovietica in miniatura”, appunto, a opera degli emigrati e/o degli esuli che lì erano finiti dal disgelo kruscioviano in avanti. “Pur avendo lasciato quella patria matrigna, tra mille vessazioni e difficoltà, una volta raggiunta una meta alternativa, il modello di mondo che avevano ricreato era plasmato proprio sull’universo a cui avevano voltato le spalle con sdegno e astio. A testimoniare che l’idea di ‘casa’, di confidenza, di ‘proprio e conosciuto’, di rassicurante è indipendente dall’ideologia politica e da ciò che la rappresenta, a dispetto dell’iconoclastia che ha caratterizzato tutti i movimenti rivoluzionari”. Eppure, restava in quei russi sradicati dalla madre patria, e non sarebbe mai venuto meno, “il sospetto”, tipico di chi “come loro aveva vissuto sotto un costante controllo”. Viene spontaneo il raffronto con l’esperienza che lo stesso Piretto vivrà a Parigi, nell’enclave russo della rue Daru, lì dove a partire dagli anni Venti i “russi bianchi” in fuga dalla Rivoluzione si erano addensati. Alla ricerca di materiali sullo chansonnier russo prerivoluzionario Alexandr Vertinskij, Piretto entra a caso in uno dei molti negozi di antiquariato di quella via: “Si era a cavallo fra gli anni Settanta e gli Ottanta e l’artista era ben lungi dall’essere conosciuto internazionalmente”. L’orgoglio che qualcuno si interessi a quel nome così caro e poi così “proibito” si trasforma in entusiasmo quando il proprietario viene a sapere che Piretto è italiano. “Telefonò alla moglie, fu preparato il tè, prima di congedarmi mi regalarono un disco 78 giri e mi salutarono con abbracci e baci, quasi in lacrime per l’emozione”.
Fra i cocktail che nella sua lunga esperienza di “vagamondo” Piretto ha sperimentato, il più eccentrico, frutto anche del suo aver scelto Berlino come città in cui godersi la meritata pensione di professore, è forse il Dubonnet&Gin, una costante, spiega, dei suoi “aperitivi berlinesi”, ma che però è anche quello preferito dalla regina d’Inghilterra, Elisabetta II. E’ una scelta, non me ne voglia l’autore, un po’ in sintonia con quel gusto camp da lui scoperto al tempo dei suoi studi e soggiorni londinesi, una sorta di kitsch consapevole, “la ridondanza compiaciuta di sé che si auto-nega, trasformando la serialità pacchiana in scelta estetica cosciente”.
Divertente è anche la breve lectio che Piretto fa intorno al kir e risalente alle sue frequentazioni parigine. Il kir si chiama Rroyal se è lo champagne ad accompagnare la crème de cassis, Communard, se si usa il vino rosso e non il bianco aligoté, Cardinal se il rosso è un pinot nero, Breton se è il sidro a fare da accompagnatore…Un kir un sourire, diceva una pubblicità che ben si addice a questo libro di ricette e di memorie in libertà assemblate con gusto e ironia da un professore che ha saputo e sa stare al mondo, consapevole che non bisogna mai prendersi troppo sul serio. Uccide più la noia che la cattiva cucina.
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