Che sia un primato nessuno può metterlo in dubbio. L'Italia è, a quanto risulta, l'unico Paese al mondo che tiene prigioniero un centenario. Erich Priebke compirà 99 anni il 29 luglio e 100 - se ci arriverà, il che gli auguro fervidamente - nel 2013. Lo so, la sua detenzione è virtuale, la sconta nel domicilio del suo avvocato e amico Paolo Giachini, esce, fa la spesa. La moglie è morta. I due figli vivono uno a New York, l'altro a Bariloche, in Argentina, dove lui venne scovato da una troupe televisiva statunitense. Ma lo vengono a trovare di rado.
Molto lucido e, per quanto consente l'età, in buone condizioni di salute, Priebke trascorre molto tempo rispondendo, a mano, alle molte lettere che gli arrivano. Alcune di coetanei solidali e compassionevoli, alcune di nostalgici delle dittature fascista e nazista. In maggioranza sono lettere di gente comune che non ignora e non dimentica cosa fu la strage delle Fosse Ardeatine, ma non approva l'accanimento contro un rottame di guerra in un Paese dove i più feroci assassini degli anni di piombo circolano a piede libero, scrivono libri, partecipano ai talk-show, si autocapiscono quando non si autoassolvono.
Il capitano Priebke apparteneva al comando del colonnello Herbert Kappler, cui fu affidato l'infame compito di sacrificare dieci ostaggi per ogni tedesco - in realtà si trattava di sudtirolesi - ucciso nell'attentato di via Rasella. È stato accertato, ma non mi interessa molto, che Kappler aveva superato per zelo sanguinario quel rapporto di uno-dieci. C'era stato un errore nella tragica contabilità, con cinque ostaggi uccisi in più. Ma la rappresaglia non era solo militare, il fatto che tra le 335 vittime ci fossero ben 75 ebrei dimostra che era anche perversamente ideologica.
Qui mi concedo una parentesi. Chi si oppone a ogni misura di clemenza per Priebke sottolinea che i crimini contro l'umanità non hanno prescrizione. È così. Ma a mio modesto avviso un ufficiale disposto a essere «boia» durante un conflitto epocale, allevato nell'atmosfera fanatica del regime hitleriano e da quel regime indottrinato, è meno colpevole, per essersi associato a una spaventosa mattanza, di altri «giustizieri» che, vivendo in una democrazia e avendo la possibilità di conoscere e di dibattere, decisero di mettere a morte degli innocenti in obbedienza a una «causa» dissennata. Fine della parentesi.
Ho preso le parti di Priebke. Prima con Montanelli, adesso senza Montanelli. Mi auguro che nessuno voglia addebitarmi simpatie per la croce uncinata e per il fascio. La mia Storia della Guerra di Grecia è uno spietato atto d'accusa delle bellicose smargiassate mussoliniane. L'Olocausto mi fa orrore e le immagini dei bambini ebrei rinchiusi nei lager e votati a una fine atroce mi danno i brividi ogni volta che le vedo. Non di questo si tratta. Si tratta del comportamento italiano nei confronti di Erich Priebke, comportamento che è stato meschino e iniquo. Il Paese che s'è giustamente rifiutato di consegnare a chi ne faceva richiesta i nostri generali o ufficiali implicati in azioni di rappresaglia nei Balcani - ce ne sono state, e dure - ha trovato la voluttà del rigore per Priebke. Il quale con i sui «camerati» delle Ss mise a morte degli sventurati di nulla colpevoli. Ma nel 1948 dal Tribunale militare di Roma fu celebrato il processo a Kappler e ai suoi collaboratori. Tra i quali non era Priebke, citato come testimone, ma in quel momento irreperibile. A Kappler fu inflitto l'ergastolo, tutti i suoi ufficiali furono prosciolti per aver ubbidito a ordini superiori (sentenza confermata in appello e in Cassazione). Sarebbe stato prosciolto anche Priebke, se presente.
Non vi furono proteste. Nella cronaca del Corriere della Sera si scriveva che «la sentenza è stata accolta con grida di approvazione dai familiari dei caduti». Ma quando Priebke fu scoperto nel suo rifugio sudamericano e estradato in Italia Kappler non c'era più, e per questo Priebke diventò Kappler. In libertà da mezzo secolo, con sentenza definitiva, gli altri ufficiali, ma per lui l'ergastolo. E avendolo il Tribunale militare condannato con una formula che riconosceva la sua colpevolezza e tuttavia mettendolo sostanzialmente in libertà, ci fu una sollevazione. E la giustizia, inchinandosi alla piazza, tanto fece che finalmente l'agognato ergastolo arrivò.
È a questo seguito di miserie, di cavilli, e di ostentato zelo resistenziale che Montanelli e io - ma era d'accordo con noi anche Massimo Fini - ci siamo opposti a un clamore conformista.
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