Priebke si confessa "Provai sollievo dopo aver sparato"

Intervistato da un quotidiano tedesco, l'ormai centenario ex capitano delle SS ricorda l'orrore della rappresaglia dopo l'eccidio di via Rasella

Priebke si confessa "Provai sollievo  dopo aver sparato"

Ancora una volta l'ormai centenario Erich Priebke riemerge dalle tenebre del passato. Lo fa con una intervista al quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung. Un'intervista che è anche una sorta di testamento. Le domande che queste sue parole sollecitano sono quelle di sempre, quelle che gli sono state poste per decenni, che noi ancora poniamo, che forse anche lui, nella casa romana - sorvegliata dalla polizia - che lo ospita pone a se stesso.

Questo rottame, l'unico imputato della sua età che sia agli arresti domiciliari, fu una belva assetata di sangue o fu un signor nessuno travolto dalla storia? Il politicamente corretto non ha esitazioni nel dare la prima risposta. Questo ex capitano delle SS che partecipò attivamente alla spaventosa mattanza delle Fosse Ardeatine si è macchiato di un crimine imperdonabile e imprescrittibile, ha messo ferocemente a morte degli innocenti in ossequio agli ordini iniqui di un regime abbietto. Il boia per antonomasia fu, finché visse, il bieco Kappler. Morto lui, il dubbio onore di essere l'emblema del nazismo spetta a Priebke, finito nelle mani della giustizia italiana grazie a una inchiesta di una televisione statunitense in quel di Bariloche (Argentina). Questione chiusa dunque.

Io credo che il caso Priebke non sia così semplice, che abbia risvolti inquietanti. Non soltanto perché la rappresaglia - ammessa dalle leggi di guerra - derivò da una strage, in via Rasella, di militari altoatesini, non soltanto perché gli altri ufficiali dipendenti dal colonnello Kappler, portati nel 1948 al giudizio di un Tribunale militare italiano, furono prosciolti per avere eseguito ordini superiori, non soltanto per le procedure a dir poco disinvolte con cui si è arrivati all'ergastolo inflitto a Priebke. Secondo me campeggia in questa vicenda una questione fondamentale. Davvero la società - e in particolare la società di quell'Italia che i suoi criminali di guerra li ha lestamente perdonati - ha il dovere di accanirsi contro un centenario? Davvero lui è più colpevole dei tanti assassini in libertà di cui le cronache ci raccontano? La stampa e gli schermi televisivi ci inondano di dichiarazioni, interventi, saggi, perfino libri che al terrorismo tributano stima se non ammirazione. Soltanto Erich Priebke è il male assoluto?

Le parole di Priebke trascritti dal giornale tedesco sono, ovviamente, autodifensive. Afferma di non avere nostalgie naziste, di essere lontano da convinzioni politiche, di aborrire le dittature «perché c'è sempre qualcuno che soffre». E poi, con rassegnazione, «una volta finita è finita». Finito il sangue, finita la guerra, le memorie ci assillano e le immagini di quando Priebke era giovane tornano sugli schermi con tanto di croci uncinate e di campi di sterminio. Il sangue delle Ardeatine resta. «Per noi fu terribile. Non eravamo affatto dei macellai. Kappler decise che gli ufficiali dovevano sparare per primi, fui sollevato dopo aver sparato due colpi, come la gran parte di noi. Un ufficiale non voleva sparare, allora Kappler gli disse “ascolta bene, se tu non spari dobbiamo fucilarti”. A quel punto abbiamo dovuto sparare di nuovo tutti».

Ho qualche dubbio sulla totale veridicità di questi ricordi soprattutto per quanto riguarda la riluttanza e le esitazioni delle SS, smaniose di vendicare i caduti di via Rasella. Il comandante del Battaglione Bozen - quello decimato dall'attentato - si rifiutò di affidare ai suoi uomini compiti da boia. Le SS li accettarono. Erano, le SS, un prodotto del fanatismo hitleriano. Esito quindi ad attribuire loro perplessità umanitarie. Ma la furia di Kappler - tutte le testimonianze lo confermano - era implacabile. Kappler fu nel 1948 condannato all'ergastolo non per la rappresaglia, ma per avere ecceduto nel numero delle vittime. Fosse stata rispettata la proporzione di dieci trucidati per ogni soldato morto non ci sarebbe stato, pare, nulla da ridire.

Quegli ufficiali erano stati addestrati a comandare, a perseguitare, a uccidere. Ma per loro, aizzati da un sistema perverso, non ci può essere nessuna indulgenza postuma, mentre ce ne sono state innumerevoli per assassini che non avevano la giustificazione d'un fanatico lavaggio del cervello? Priebke si aggrappa, non senza fondate ragioni, agli ordini superiori. «Mah, non avevo scelta. La mia vita è andata così. Non sappiamo se Dio esiste, non sappiamo se esistono il Cielo e l'inferno. Sono convinto che il Signore, se c'è, guida ogni persona a vivere così come vive». La stessa argomentazione potrebbe essere utilizzata da ogni efferato delinquente.

Eppure ho per queste giustificazioni di Priebke molto rispetto. È un Priebke pronto a render conto di ciò che ha fatto a Dio (se c'è). Gli mancano le espressioni di pentimento che vorremmo da lui perché ritiene di avere semplicemente assecondato la sorte: «è andata così». A Bariloche era un tranquillo pensionato. Non accetta il ruolo di mostro, ma lo subisce quietamente.

Gli antifascisti e antinazisti puri e duri lo tengono d'occhio, perché non scappi (ma per gli agenti ha espressioni grate: «sono amici, persone davvero gentili»). Il boia è sotto sorveglianza, fino all'ultimo respiro. Giustizia è stata fatta.

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