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«Ma quali lobby e salotti, la società letteraria è morta»

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Un romanzo così lo aspettavamo da anni. Finalmente una scrittrice italiana che si leva alcuni sassolini dalle scarpe e ci descrive, dall’interno, ambasce, speranze, intolleranze, tic e rancori di un autore: verso lettori, che siano parenti o estranei, librai, mecenati, scuole di scrittura, editori ed editor. Certo Come se niente fosse (Adelphi, pagg. 140, euro 15) è anche una storia di famiglia, come lo sono da sempre i romanzi di Letizia Muratori: Lula, la protagonista, accetta di tenere un seminario di lettura creativa che meglio, o peggio, di una serie di sedute psicanalitiche, farà emergere più di un segreto e tracimare più di un inconscio. Ma è soprattutto la storia di come nasce un romanzo e di quanti ostacoli incontra sulla sua strada, autobiografici e pubblici, specie se è un «romanzo a chiave» come questo (anche se l’autrice nega), prima di vedere la luce.
La sua protagonista è lacerata tra «ruolo» dello scrittore, bisogni primari e obbedienza all’interiorità. Dura la vita del narratore oggi in Italia?
«I bisogni sono vendere un numero di copie sufficiente a mantenersi. Per quanto riguarda il ruolo, rispetto al passato l’unica differenza, sostanziale, è che oggi lo scrittore che lo voglia o meno - e spesso lo vuole - è indubbiamente molto più esposto al pubblico».
Ma esiste un establishment letterario in Italia?
«La società letteraria come la s’intendeva un tempo non esiste più da decenni. La nostra è una scena al tempo stesso affollatissima e deserta su cui ogni tanto qualcuno, per un certo periodo, esercita una sua influenza».
E crea circoli chiusi in cui per un giovane è impossibile entrare senza il codice giusto.
«Esiste la fortuna, la sfortuna, la simpatia e l’antipatia. Prima di essere italiani, siamo esseri umani che si incontrano, si piacciono, si influenzano reciprocamente. Il resto sono fantasie “complottarde”, forse suggestive ma che poco hanno a che fare con la realtà».
Oggi, rispetto agli scrittori, i protagonisti del successo dei libri sembrano altri: gli editor, gli agenti, il marketing…
«Uno dei motivi, non il principale ma importante, per cui ho scritto questo romanzo è temperare l’ossessione corrente per le lobby, la favola delle eminenze grigie che tramano bestseller a tavolino ai danni di lettori presupposti beoti. Marketing non è in sé una parolaccia. La mia posizione sulle cataste di romanzi di largo consumo che troviamo in libreria è un po’ attardata e “industrialista”: se la serie B contribuisce a far vivere la serie A e, anzi, gli fa perfino da antidoto, mi sta bene. Ma è ancora così? Sono curiosa di vedere cosa accadrà con l’arrivo del self publishing, perché l’era del dilettante col mito del talento ha rovesciato le regole dell’intrattenimento. Per quel che riguarda gli editor, ho avuto la fortuna di confrontarmi sempre con quelli che amano i libri. Alcuni magari amano un po’ meno gli scrittori, il che è anche comprensibile. Un po’ come la protagonista del libro sono un tipino rigido. Non ritengo la mia scrittura intoccabile, ma per toccarla devi prima amarla un po’, desiderarla. Se la tocchi a freddo rischi di farle del male perché un romanzo, piaccia o meno, è un organismo vivente. Dunque se, come si dice, lo scrittore migliore è quello morto, l’editor perfetto è quello innamorato del libro. Io non coltivo il mito del distacco e dell’obiettività. Ci vuole un po’ di sana esaltazione per fare bene l’editor. La lucidità è l’arma del redattore e del correttore di bozze».
E lo scrittore impegnato esiste ancora?
«Appartiene a una breve e lontana stagione».
Ma tra voi scrittori esiste una «colleganza» o solo invidia?
«I rapporti tra colleghi si basano anche sull’invidia. Da sempre. E non bisogna mai dimenticare che l’invidia è una forma di ammirazione. Sono con Thomas Bernhard: l’ammirazione è un sentimento piuttosto ridicolo».
Nel romanzo si descrive una sorta di circolo letterario, di salotto culturale: Villa Gunther. Esistono luoghi come questo, decisivi per la riuscita di un romanzo?
«L’ultimo grande salotto italiano è stato quello di Aiazzone. Ammesso che esistano, io non sono mai stata invitata a questo genere di appuntamenti. Il salotto di villa Gunther è elitario quanto ininfluente e il romanzo non prende tanto in giro le persone, di tutti i tipi, che si riuniscono per discutere di letture, ma proprio quelli che aspirano a salotti di serie A, a entrare a corte e si sentono esclusi dalle terrazze che esisteranno pure ma sono al tempo stesso un’invenzione di certo giornalismo».
Gran parte del romanzo è incentrato su una piccola scuola di «lettura» perché, è il suo slogan sarebbe meglio imparare a leggere prima di imparare a scrivere…
«Se avessi frequentato una scuola di scrittura creativa sospetto che mi avrebbero suggerito di non scrivere tutto quello che ho scritto.

Detto ciò, penso che si possa imparare a scrivere meglio, e certi corsi sono fatti molto bene, ma vi si dovrebbero iscrivere autori già maturi non quelli alle prime armi che rischiano di compromettere l’originalità della loro voce acerba. Per quel che riguarda le scuole di lettura rispondo con una battuta del romanzo: “Cosa significa imparare a leggere? Siete diventati analfabeti?”».

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