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Quando la bionda è sul set tutta la città si ferma

Quelli del cinema sono fuori di testa. Il campione di baseball guarda la star. E qualcuno cerca di strappare un autografo...

Quando la bionda è sul set tutta la città si ferma

Horace Folger non aveva tempo da perdere con le stronzate.

Non poteva permettersi di prendere un pomeriggio di ferie dal negozio di fai-da-te quando ne aveva voglia. Ma per suo figlio avrebbe trovato il tempo. Poggiò una mano sulla spalla di Teddy e lo avvicinò a sé. Non voleva perderlo nella folla che si era radunata per vedere quelli del cinema.

Quelli del cinema, però, sembravano completamente rincoglioniti. Il regista urlava continuamente «stop», si fermavano tutti, tornavano in posizione, poi gridava «azione» e tutti facevano di nuovo le stesse stronzate. Sembrava che gli spettatori, perlopiù uomini, dessero fastidio al regista.

Erano tutti lì per vedere la bionda.

Cristo, che bionda. Stava in piedi sulla griglia di areazione della metropolitana, poi arrivava uno sbuffo d'aria che le sollevava il vestito bianco e tutti avevano modo di riempirsi gli occhi. Ogni volta che le saliva, a Horace tremavano le gambe. Non farei mai le corna a Mildred, ma se quella bionda venisse a bussare alla porta di casa mia una sera...

Horace diede una gomitata al tizio che gli stava a fianco.

«Ehi, amico, chi è quel gran bel pezzo di figliola?»

«Scherzi?» rispose quello. «È Marilyn Monroe. Sei stato su un'isola deserta?»

«Sì, sì» Tutti che la sapevano lunga.

Horace osservò la folla, scrutandone i volti. Eccolo, Joe DiMaggio. Lui sì che era un uomo vero, e anche un gran giocatore di baseball. La voce era girata fino alla zona dove si trovava il negozio di Horace. DiMaggio! Horace non ci aveva pensato due volte. Era corso a casa, nell'appartamento sopra il negozio, aveva preso suo figlio Teddy e l'aveva portato a vedere il più grande giocatore di baseball della storia.

E ora lo stava guardando in faccia. DiMaggio era a meno di cento metri di distanza, insieme ad altre persone. Alcuni armeggiavano con le luci, altri avevano in mano delle cartelline, dei microfoni, tutti giravano come delle trottole impazzite.

Tutti, tranne Jolting Joe. Joe “il Bombardiere” DiMaggio. Stringeva i pugni e guardava la bionda. Sembrava incazzatissimo. A Horace tornò in mente che il giocatore era sposato con quella bionda. Ah. Ecco perché sembrava così infuriato. A Horace non sarebbe piaciuto che una folla di scimmioni sudati guardasse sua moglie con la bava alla bocca.

«Vieni, Teddy». Si mise il bambino in spalla e indicò il campione incazzato. «Quello, figlio mio, è Joe DiMaggio. È il più grande giocatore di baseball del mondo.» Per Horace, era come indicare il presidente, il papa o Frank Sinatra.

Teddy non disse nulla, continuò a tenere stretta la testa di papà, osservava tutto con i suoi occhioni nocciola.

Quel ragazzino faceva venire i nervi a Horace. Non parlava quasi mai, era sempre appiccicato alla sottana di sua madre. Non guardava negli occhi gli estranei. Mildred diceva che era semplicemente un tipo tranquillo, timido. A Horace non piaceva l'idea. Suo cugino Leo era “tranquillo, timido” da piccolo, ed era finito a fare il parrucchiere per signora nel Greenwich Village. E quindi aveva portato Teddy a vedere un vero uomo.

Il regista urlò “azione” e la gonna della Monroe si sollevò di nuovo. DiMaggio era furente.

Horace vide il regista sollevare le mani e dare a tutti cinque minuti di pausa. La Monroe si avvicinò a suo marito. Sembrava che stessero litigando. Horace si avvicinò un po' e si trovò in mezzo alla calca. Alcuni se ne stavano andando, altri cercavano di andare più vicino e dare un'occhiata all'attrice.

Se Horace si fosse sbrigato sarebbe riuscito a farsi fare un autografo. E, magari, DiMaggio avrebbe stretto la mano di Teddy. Forse avrebbe fatto la differenza, avrebbe potuto dare un'impressione importante, duratura.

Qualcuno sollevò una mano. Era grande e grosso, probabilmente uno di quelli del sindacato. Fermò Horace. «Di qua non si passa».

«Volevo che mio figlio incontrasse...»

Il bestione scosse la testa. «Stiamo cercando di girare un film qui, sa. Devo tenere tutti fuori».

E poi arrivarono i marinai. Erano in tre, puzzavano come una distilleria e cercavano di farsi largo. Il gorilla ne bloccò uno, mancò gli altri e gridò: «Cristo, Pauley, vieni qui. Ci sono dei furboni!». Un secondo omone largo come una portaerei sbucò di fronte ai marinai. S'azzuffarono un po'; i marinai imprecavano e davano deboli pugnetti. Uno di loro chiamò: «Marilyn, tesoro!».

Horace colse la palla al balzo e aggirò il tafferuglio con Teddy che gli ballonzolava in spalla e si teneva stretto ai capelli del papà. Si diresse dritto verso DiMaggio e la Monroe. La donna aveva voltato le spalle allo sportivo, ma Joe l'aveva presa per un polso tirandola a sé. Horace trasalì. Evidentemente era un momento privato, e Horace non era uno che metteva il naso in affari non suoi. Ma era troppo tardi per tirarsi indietro. Suo figlio stava per incontrare Joe DiMaggio, era quello l'importante. Avanzò. Arrivò a un metro e mezzo dai due.

DiMaggio sollevò lo sguardo all'improvviso, lasciò la Monroe e si mise le mani in tasca. Horace era proprio di fronte a loro. Era nervoso, ma non poteva certo passare tutto il giorno a fissarlo.

«Signor DiMaggio, sono un suo grande ammiratore». Tese la mano e DiMaggio la strinse.

«Grazie», rispose lui.

«Anche mio figlio». Spinse avanti Teddy. «Dagli la mano, piccolo».

Teddy sollevò la mano come uno zombi. Sembrava in trance. Lo sguardo non era esattamente concentrato su DiMaggio. Il giocatore riuscì a tirar fuori un mezzo sorriso e strinse la mano del bambino. «Come va, campione?».

Teddy aveva la bocca aperta. Tirò via la mano.

Horace gli toccò una spalla. «Dagliela. Coraggio».

Nell'altra mano Teddy aveva la figurina di Joe DiMaggio.

La tese allo sportivo che la guardò e rise.

«Mi ricordo di quando ho posato per questa». Si tastò le tasche della giacca in cerca di una penna.

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