Leo Longanesi (1905-57), che nacque a Bagnacavallo, e visse a Roma, Napoli e Milano, considerava «sua» soltanto una città, Bologna, dove «ci ho lasciato il cuore». E dove, fra il 1910 e il 1930, fece e disfece di tutto: frequentò liceo e università, senza finirla, collaborò a giornali, li fondò e li chiuse, iniziò la sua attività editoriale, frequentò i caffè letterari e il giro dei nottambuli, diventò amico dei gerarchi, poi fece loro la fronda. Si divertì, crebbe, lavorò, e poi se ne andò, dalla casa in via Irnerio, dalla sua Bologna...
Ci tornerà, illuso di ritrovarla uguale, tanti anni dopo, scoprendo che il fervore della città si era appassito, la vitalità di allora era solo un ricordo. «C'erano i viveurs, quelli che prendevano la bianca, e che poi finivano i loro giorni con un colpo di pistola alla tempia, o che guadagnavano una medaglia in guerra; ce n'erano di quei tipi, ma colorivano la città, arricchivano l'umore cittadino. Perché una città è sempre popolata di gente perbene e di gente permale: di chi fa l'elemosina e di chi sperpera e pecca. Sì, amici, la mia città, ai miei tempi, peccava, peccava all'ingrosso, ed era felice e viva».
Era felice e viva... Perché Leo Longanesi quando tornò a Bologna, non la riconobbe. Lo raccontò in uno splendido pezzo uscito su Il Borghese il 23 dicembre 1955, che ora viene pubblicato in un libriccino della casa editrice Henry Beyle, col titolo Faust a Bologna. Un elogio (funebre) della città che fu. «Era una città ricca, Bologna, allora \. La notte era un nuovo giorno, popolato di tiratardi.
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