«Quando una frase non ha senso non posso fingere che l’abbia»

Avevamo intervistato Franca Cavagnoli - traduttrice e docente di traduzione letteraria - a proposito dei calchi in traduzione. Poi c’è stata la reazione, un po’ maschilista e avulsa dai ragionamenti fatti in quell’articolo, di Faletti.
Ci ritroviamo, dunque?
«Sì, perché alcune precisazioni sono opportune. Certo non voglio entrare nella polemica».
Ascoltiamo le precisazioni.
«Ho cercato di fare un discorso articolato. Il nocciolo è che quando ci si trova di fronte a un’espressione idiomatica non si può tradurla facendola sembrare un’invenzione linguistica. Nel suo saggio Riflessioni teoriche e pratiche sulla traduzione, Umberto Eco ci ricorda che una piccola infedeltà linguistica può garantire una fedeltà culturale».
Pensa che sia il caso di Faletti?
«Non posso saperlo perché non sono nella mente o nell’inconscio linguistico di Faletti».
Avevamo parlato dell’uso che del calco si può fare nel romanzo italiano...
«Sì. Se ci sono ragioni narrative e artistiche forti i calchi possono esprimere qualcosa di profondo, come un disagio nell’abitare un luogo tra due lingue e due culture, e dare esiti letterari alti.

Posso ben immaginare un personaggio bilingue che fa dei calchi o che fa un uso inconscio dell’inglese perché abituato a parlare in inglese».
Ma la frase di Faletti sul gatto e «le sue semplici implicazioni feline»?
«Se la trovassi in una traduzione me ne chiederei il significato. E metterei accanto dei punti interrogativi».

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