Quando il lutto diventa capolavoro

"Storia di una vedova" di Joyce Carol Oates è l'atto d'amore per il marito scomparso. Senza svenevolezze e piagnistei

Quando il lutto diventa capolavoro

Non c'è dolore umano più straziante del lutto. Lo sapeva bene Ugo Foscolo, il quale dava ai sepolcri una funzione più utilitaristica che spirituale: il morto è morto, chi soffre è chi resta. I cimiteri, le tombe, i sepolcri servono a illudersi di andare a trovare chi non si trova più da nessuna parte. È l'assurdo della fine biologica, senza senso, che la mente del primate Homo Sapiens non può elaborare, la disperazione che ha inventato un'anima.

Non per altro se scrivere diari sulla propria malattia è un genere in cui sono riusciti pochissimi (tra questi Hervé Guibert e Christopher Hitchens), scrivere sulla morte dell'amato è ancora più difficile, non c'è riuscito quasi nessuno senza cadere nella lagna funebre. Se poi lo scrittore è una donna, già culturalmente propensa a svenevolezze e spiritualismi benedetti o maledetti, ancora peggio, quasi impossibile. Immagino le nostre autrici, perfino le più giovani, ancora non uscite dal Medioevo: Michela Murgia pregherebbe Ave Mary, Isabella Santacroce si consolerebbe parlando con fantasmi e demoni.

Ammenoché la scrittrice non sia Joyce Carol Oates: il suo Storia di una vedova non è un semplice memoriale per la perdita del marito Raymond Smith, piuttosto un capolavoro sulla tragedia di sopravvivere all'amato. Andrebbero mozzate le falangi ai redattori della Bompiani per aver stampato sulla quarta di copertina la frase «la tua vita è un dono», come specchietto per le allodole, facendolo sembrare un libro di Paolo Brosio. È invece un'opera profonda e tragica, autobiografica ma di immenso spessore artistico, uno struggente libro d'amore e di dolore con la tenuta stilistica e strutturale del romanzo. Affrontare la perdita nella consapevolezza del carattere effimero del mondo, del caos dell'universo, della fragilità del nostro essere organismi: Raymond, tra l'altro, muore per un'infezione polmonare da Escherichia Coli. Un batterio che vive normalmente nel nostro intestino, ma che in certe condizioni può uccidere. Muore, d'altra parte, come morirà chiunque.

E così, da un giorno all'altro, tutto cambia: alle 00.50 del 18 febbraio del 2008 l'esistenza di Joyce precipita in un labirinto di cose inquietanti, inanimate. È molto peggio della metamorfosi di Kafka, perché non sei tu ma il mondo intorno a trasformarsi in un mostro. Gli oggetti di Ray sono di colpo solo «effetti personali da ritirare», il suo stesso corpo, immobile e gelido, un oggetto da affidare a estranei («In un batter d'occhio Ray è diventato non una persona ma una cosa»), il certificato di morte un foglio da portarsi dietro in più copie, per espletare mille pratiche burocratiche. «In quanto vedova sarò ridotta a un inventario di cose: cose che conserveranno solo un pallidissimo barlume dell'identità e dell'importanza originarie, proprio come, in un guscio morto e prosciugato di qualcosa che nel passato ha posseduto peculiarità organiche, si può forse individuare una traccia degli attributi che l'hanno caratterizzato».

In questa pietrificazione del mondo emotivo e organico, per chi resta non c'è più neppure una casa dove tornare, un nido in cui rintanarsi: «è strano ammettere che possa ancora esserci una casa, adesso, senza mio marito: una casa nella quale portare i suoi effetti personali». Così Joyce inventa dei trucchi, delle piccole illusioni che trascrive a uso e consumo di ogni vedova (e vedovo). Per esempio: pensare di essere in un'altra stanza. «Così, quando sono a casa, posso immaginare che Ray sia nei dintorni». Coccolata dagli amici più cari, come gli scrittori Richard Ford (e la moglie Kristina) e Edmund White, rifugge però ogni pietismo.

Un memoir anche filosofico, nel senso più moderno, dove la scrittura della Oates intreccia la quotidianità più pratica a riflessioni esistenziali che i nostri autori umanisti si sognano perché digiuni di scienza da almeno due secoli. «Sprofondo nella confusione se penso perché c'è vita e non cessazione di vita. Non so spiegarmi il primissimo sforzo per confermarsi nella vita - quello degli organismi unicellulari che, in una sorta di magmatico brodo chimico, miliardi di anni prima della comparsa dell'uomo, hanno lottato per prevalere, resistere e continuare». Allora la vedova, attanagliata dal suo dolore, si inventa ogni notte un modo per dormire, ogni mattina un modo per svegliarsi e affrontare un'altra giornata, riflettendo sulla vita, sul suicidio, rileggendo Charles Darwin o Daniel Dennett, e senza mai cedere alla sconfitta né al pensiero banalmente consolatorio.

È un libro struggente, coraggioso, commovente, più intenso dell'Everyman di Philip Roth: una everywoman vivisezionata in prima persona, sulla propria pelle. In questa «ontologica commedia degli orrori», nell'esperienza della perdita come «fenomeno imprescindibile della vita umana», avendo cura di evitare le «stanze fantasma» della casa e perfino di guardarsi allo specchio, Joyce cerca un significato che restituisca un senso alla sua vita di sopravvissuta. Non un senso consolatorio universale, ma per se stessa.

Un significato non stupido e mai cieco, mai uno sguardo

rivolto a un cielo che non c'è e non significa niente. Un significato minimo, intimo, sul nostro restare vivi, perché alla fine «senza un significato, il mondo è fatto solo di cose - cose che si moltiplicano all'infinito».

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