Quando Peppino di Capri cantava "champagne"

Quando la vita era "dolce", un giovanotto con una montatura di occhiali pesante cantava il twist e i grandi successi della canzone napoletana ai ricchi e ai potenti. Era Peppino Faiella, di Capri

Quando Peppino di Capri cantava "champagne"

Ha compiuto 80 anni più uno, il maestro, Peppino di Capri, al secolo Giuseppe Faiella, nato il 27 luglio del 1939 sull’isola che tanti dicono essere “la più bella del mondo”; trovando pochi, pochissimi in disaccordo.

Se ci si è stati, a perdersi nei suoi vicoli, a ballare nei suoi night, a sognare di rivolgersi all’orizzonte come i protagonisti dalla pellicola di Godard, nella villa che fu di Curzio Malaparte, e che ben si prestava ad essere teatro della trasposizione cinematografica del “Disprezzo” di Moravia; lo si sa. Altrimenti, se possiamo abbandonarci al consiglio di carattere turistico, dovremmo dire: “urge” trovare una soluzione per approdarci. Ma solo dopo essersi lasciati sedurre un poco dalle narrazioni della sua storia, dei suoi segreti e dei suoi vecchi fasti. Tanti dei quali sono stati consumati proprio sulle note dello chansonnier caprese, con una coppa di champagne tra le dita.

La villa di Curzio Malaparte a Capri
La villa di Curzio Malaparte a Capri

C’è un bel libro di un altro maestro partenopeo, Paolo Sorrentino, che cita e recita affettuosamente Peppino, s’intitola Hanno tutti ragione, e sarebbe perfetto da leggere nel viaggio che tocca intraprendere su uno di quei traghetti caotici d’aspettative per un’estate che tutti si augurano essere definitiva. Perché Capri più di un luogo di villeggiatura: è un’aspettativa. Una luce verde che s’illumina dall’altra parte della baia come quella del grande Gatsby. La vacanza da sogno sull’isola che tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta ha fatto la storia dell'eccesso.

Quando Peppino nasceva, la Seconda guerra mondiale ancora non era iniziata. Ma la terra natale dalla quale avrebbe preso in prestito il nome, era già meta di intellettuali, nobili e libertini. Una fauna altolocata potremmo dire. Lui iniziò a cantare le prime canzoni con Ettore Falconiere nel “Duo Caprese”, nel dopo guerra, quando l’Italia che ne era venuta fuori si leccava ancora le ferite, e il boom economico sta per deflagrare. La voglia di vivere era tanta, un segno di riguardo nei confronti di tutti quei morti. Di lì a poco sarebbe stata la “Dolce Vita”. Ma la vita dolce, a Capri, c’era, già nel 1948, come racconta Marcella Leone De Andreis nei suoi bei libri, decaloghi di aneddoti dello scoglio dove si ritrovavano artisti, scrittori, reali, miliardari, bellezze esotiche e vitelloni in cerca di lascivia e divertimento sfrenato.

Allora il nostro Peppino Faiella che non era ancora noto al mondo con suo pseudonimo d’origine, dicevamo, ma già cantava per loro, e riceveva gli apprezzamenti di una pletora di bellocci e bellocce affascinanti e blasonati, nelle loro uniformi estive di lino bianco: perfetto per far spiccare l’abbronzatura che spesso era “integrale”. Negli anni ’Cinquanta Capri era un susseguirsi di cene danzanti, e aperitivi infiniti in piazzetta che terminavano nei night come il Tragara Club, la Canzone del mare e il Gatto Bianco, o proseguivano, nelle ville di qualche magnate americano o del discendente diretto di qualche barone prussiano. In mezzo a loro c’era un ventenne con una montatura d’occhiali pesante e una voce potente. Aveva iniziato a cantare a Napoli, poi Ischia, e in fine a Capri, dove avrebbe consacrato il suo successo. Dapprima si esibiva al Number Two, imitando Buddy Holly ma cantando “Tu vuo' fa' l’americano” di Carosone. Poi, a mano a mano che il successo lo travolgeva, sarebbe arrivato a cantare alle feste private, e in un locale tutto suo, lo Splash, dove si esibiva tra un lento e un twist, brani di Modugno, grandi classici della canzone napoletana, e i suoi primi indimenticabili successi.

Capri

Erano i tempi in cui Capri era popolata di stravaganti araldi che si trascinavano appresso bizzarri animali da compagnia. Dal pappagallo sulla spalla che veniva attribuito al dandy romano Dado Ruspoli, alle pantere al guinzaglio da fascino Cartier, ai mastodontici alani che sfilavano accanto a uomini seminudi: con lo splippino da mare con pacco ben in vista - anche se allora la buon costume lo vietava (e col senno di poi sarebbe idea da rivalutare) - e sandali capresi, ovviamente. Tutti animali che destavano un certo disturbo alla colonia di dozzine di gatti persiani di Villa Castello. Tutti personaggi che sarebbero rimasti per sempre nel cuore dell’isola che diveniva metà turistica giornaliera, da una botta e via proprio per merito del fascino da rotocalco.

Mentre Peppino di Capri vinceva Sanremo, due volte, negli anni Settanta, con "Un grande amore e niente più" e "Non lo faccio più”. Nelle ville di tutta l’isola, da Tragara ad Anacapri suonavano le note di un altro successo che non sarebbe mai sfiorito: la sua canzone simbolo, “Champagne”.

Intanto sull’isola passavano i grandi nomi del jet set. Da Jackie Kennedy, che oramai era diventata Onassis - Jakie’O - a Valentino, alla famiglia Agnelli. Era una Capri che lentamente sarebbe svanita. Finita diceva qualcuno. “I ricchi andavano via” e al loro posto arrivano “quelli coi soldi”, avrebbe riassunto in maniera esauriente Roberto D’Agostino in un’intervista anni dopo. Una trama che avrebbe riguardato molte mete di villeggiatura “chic” sparse nel bel Paese. Mostrandocele come le conosciamo ora. Ma i successi di Peppino di Capri continuavano a suonare e ad accontentare il pubblico, che non era più prussiano di discendenza, ma post-sovietico o emiratino. Locali e ristoranti à la page suonavano “Roberta”, “Luna Caprese”, “Nessuno al mondo”.

Al tempo in cui ci arrivai io a Capri, tutto era cambiato infatti. I ricchi avevano passato il testimone agli arricchiti, che soggiornavano fieri al Quisisana e spendevano milioni di rubli e dollari su e giù per le vie dello shopping. Ma una certa nobiltà partenopea, decaduta a volte, e qualche vecchio abitué da ammirare mentre consumava un campari in piazzetta, da Tiberio, era sopravvissuto. Duri a morire.

Allora andava di moda andare all’Anima e Core di Guido Lembo. Si iniziava a cenare in un ristorante adiacente, sotto un manto di alberi di limone, e poi spesso si finiva di mangiare altrove: “Qui a Capri va di moda ordinare una portata da una parte e una d’altra” - sosteneva un amico con velleità da Giancarlo Giammetti, e qualche uscita più degna dell’americano a Roma di Sordi. Sarà stato vero? Si attendono smentite. Anche se del resto con i locali è sempre andata così: si iniziava dal Pantarei, poi si cantava con la band di Lembo, sui tavoli, con maracas e i tamburelli, poi si imboccava la porta del Number One, e si sbucava internamente al Number Two. Dove si usciva all’alba. Le canzoni di Peppino accompagnavano molti di quei momenti.

Anche se tutto era cambiato, decaduto, diverso, ci si poteva illudere di essere uno di quel club leggendario. Per poco. Perché c’era sempre qualcuno che nella sua uniforme di finissimo lino bianco, era lì pronto a ricordarti le parole dissacranti e laconiche dell’avvocato Agnelli: “Andavo a Capri quando le contesse facevano le puttane, ora che le puttane fanno le contesse non mi diverte più”. Forse aveva ragione. La fauna era cambiata. Ma in certi casi bisogna essere pragmatici, non rimpiangere il passato che non ci appartiene. Semmai rendergli omaggio. Vivere l’epoca che ci è toccata vivere. Amare i luoghi come sono diventati, e in essi le donne che ci capitano.

Come quelle a cui cantava il Maestro di Capri. Perderle e trovarne di nuove. Magari proprio sull'isola più bella del mondo. Lo pensavo spesso, quando guardavo in direzione del bancone, e dicevo, altrettanto laconico: “Cameriere, prego, champagne.”

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