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Quel maledetto 1914, l'anno più tragico della storia europea

Dopo l'attentato di Sarajevo le grandi potenze navigarono a vista verso il naufragio. Compreso l'impero asburgico

Quel maledetto 1914, l'anno più tragico della storia europea

Catastrofe 1914 è il titolo del libro che lo storico inglese Max Hastings ha dedicato al primo anno della Grande Guerra (Neri Pozza, pagg. 796, euro 22), e che s'aggiunge a una sterminata bibliografia. Portandovi tuttavia una messe di ritratti, episodi, annotazioni che consentono di mettere meglio a fuoco un evento straordinario e terribile.
Nelle polemiche antitedesche - anche quelle di stretta attualità - la guerra del Kaiser Guglielmo II e la guerra di Adolf Hitler sono abbinate, quasi che la seconda sia stata una continuazione della prima. Non è così. Nel 1939 la volontà invasata d'un dittatore fanatico, purtroppo seguito da un popolo obbediente, indusse al combattimento anche popoli e Paesi che di far la guerra non avevano nessuna voglia, e che per non farla avevano subito l'oltraggio del Patto di Monaco. Nel 1914 tutto fu più confuso, e lo fu anche la ripartizione delle responsabilità. I tedeschi non avevano un piano per dominare il mondo e modificarono i loro obbiettivi con l'andare del tempo. Vienna voleva lavare l'onta di Sadowa, ossia della sconfitta subita nel l866 per mano prussiana. Per vendicarsi dell'onta di Sedan del 1870 i francesi covavano la loro rabbia. Ma quelle battaglie e quelle sconfitte o vittorie non avevano impedito che l'Europa si abbandonasse alle mollezze della Belle Époque.
Nella Berlino del 1914 il Kaiser Guglielmo II aveva ambizioni sfrenate di potenza e di gloria, era pomposo e vanaglorioso, ma non pazzo. Per verità presumeva di poter essere l'erede di Bismarck e ne era soltanto la caricatura. A Vienna l'anziano Francesco Giuseppe era influenzato da consiglieri militari e civili altezzosi e buoni a nulla, ma capaci di tutto. Una delle singolarità del saggio di Hastings sta nel fatto che ridimensiona abbastanza l'immagine positiva della struttura statale asburgica che molti, me compreso, hanno in Italia.
L'attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 che costò la vita all'arciduca Francesco Ferdinando, erede del trono austriaco, e alla di lui moglie morganatica, fu casuale e dilettantesco. Mai un atto così tremendamente truce e così tremendamente stupido ebbe così immani conseguenze. Gavrilo Princip determinò le sorti del mondo. L'ultimatum di Vienna alla Serbia era redatto in modo da essere sicuramente rifiutato. Belgrado accettò tutte le clausole all'infuori di quella che consentiva alle truppe austriache il diritto d'installarsi in Serbia. A Vienna si esultò per il rifiuto, nella convinzione che la Serbia avrebbe avuto il suo castigo. Al punto di non ritorno si arrivò soprattutto per inerzia. Christopher Clark, in un bellissimo saggio ha bollato come «sonnambuli» i potenti i quali, messi sullo scivolo verso la catatrofe, aspettarono passivamente, in buona sostanza, che il destino si compisse.
La tesi di Clark è stata contestata. Hastings nella sua diagnosi le si avvicina, seppure con qualche distinguo. Le masse furono del tutto estranee alle decisioni, si ebbero manifestazioni di folla importanti solo dopo l'inizio delle ostilità, e nella loro imminenza non mancarono manifestazioni pacifiste. I passi verso il baratro furono compiuti dalle dirigenze di sette diversi Paesi. Ma il dato sorprendente è che quelle dirigenze dettero l'impressione di non capire cosa stesse accadendo. E probabilmente non è solo un'impressione: non capivano proprio. Mentre il pericolo d'una tragedia spaventosa era evidente, i regnanti e i governanti insistettero nei loro impegni anche frivoli e mondani. E, tra gli impegni seri, la prospettiva d'una inutile strage planetaria, sfiorò appena, per lunghe settimane, i cervelli degli aristocratici di Londra, troppo impegnati nell'occuparsi dell'Ulster.
Hastings ha limitato il proprio percorso al primo anno di guerra, fa punto fermo al Natale. Secondo lui il 1914 fu la cesura tra due mondi più di quanto lo sia stato il 1939. Si può dissentire anche con buone ragioni, ma Hastings fornisce al suo punto di vista sostegni importanti. La sua narrazione non è in bianco e nero. I tedeschi commisero anche crudeltà - non comparabili a quelle hitleriane - ma non furono gli squartatori malvagi la cui immagine fu accreditata dalla propaganda alleata. La battagli della Marna, con cui fu salvata Parigi, ebbe caratteristiche epiche e risvolti straordinari, come quello dei tassì che portarono in prima linea la truppa di rinforzo. Onore alla Francia. Ma il suo esercito ebbe défaillances terribili. Onore alla Germania sconfitta, ma la sua montagna di cadaveri fu inutile.
Nella Belle Époque, tra balli e scandali, le armi e gli altri strumenti bellici avevano compiuto progressi straordinari. Per gli aerei, confinati tuttavia in un ruolo di nicchia, per l'automobile e per l'autocarro, soprattutto per la mitragliatrice divenuta, lei sì, la vera regina delle battaglie. A causa della mitragliatrice la cavalleria divenne un ferrovecchio. Tutto era cambiato, tranne le teste dei generali, pateticamente aggrappati alle loro polverose tattiche. Non si era ancora, nel 1918, alla guerra lunga e tormentosa fatta di trincee, di fango, di filo spinato. No, si era ancora al culto della guerra eroica, romantica, patriottica. Con stragi inaudite. «La maggior parte delle persone - cito da Hastings - crede che il primo giorno della battaglia della Somme, nel 1916, sia stato il più sanguinoso dell'intero conflitto. Non è così. Nell'agosto del 1914 l'esercito francese avanzava sotto il sole splendente in schiere compatte, con le giubbe blu e i pantaloni rossi, guidato da ufficiali a cavallo con le bandiere al vento, accompagnato dalla musica delle bande militari».
Quei poveri combattenti in assetto da parata furono falciati a decine e centinaia di migliaia. Nei cinque mesi di guerra del 1914 i francesi persero più d'un milione di soldati, tra cui 329mila morti. I tedeschi lamentarono la perdita di 800mila combattenti, con un numero di morti tre volte superiore a quello dell'intera guerra franco-prussiana del 1870. Ce ne volle perché i comandanti ammettessero che quelle avanzate a ranghi serrati erano un obbrobrio e un suicidio.

Del resto il generalissimo italiano Cadorna, il quale per quasi un anno ebbe il privilegio di prendere lezione dai massacri di Francia, rimase attaccato alla sua teoria dell'attacco frontale.

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