Nella primavera del 1940 Heinrich Himmler, capo delle SS, presentò un memorandum a Hitler in cui proponeva di trasferire tutti gli ebrei del Reich in Madagascar. Il Führer approvò il documento e per qualche mese la burocrazia nazista fu impegnata a studiare l’esodo di milioni di persone nel lontano Oceano Indiano. La soluzione finale del problema ebraico, elemento portante dell’ideologia hitleriana, non si era ancora trasformata in Olocausto. Nell’autunno del 1940, Franklin Delano Roosevelt, impegnato nella campagna per la rielezione, tenne alcuni infuocati comizi in cui garantì agli elettori che non avrebbe mai mandato i soldati americani a morire sui campi di battaglia europei. In quel momento il movimento isolazionista appariva forte e combattivo; tra i suoi simpatizzanti e finanziatori c’era perfino un futuro presidente: John Fitzgerald Kennedy. L’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto era ancora del tutto ipotetico.
Se alla fine le cose andarono come andarono, se la Seconda guerra mondiale assunse le caratteristiche che conosciamo, è perché tra il 1940 e il 1941 un certo numero di decisioni, prese da un pugno di uomini, contribuì a orientare in maniera decisiva il corso degli eventi. Con la conseguenza di unificare in una sola immane deflagrazione i due conflitti allora in corso: quello europeo tra Germania, Francia e Gran Bretagna e quello asiatico tra Cina e Giappone. Sono queste decisioni, le Scelte fatali del titolo, il tema del libro dello storico britannico Ian Kershaw pubblicato in questi giorni da Bompiani (pagg. 300, euro 25). Kershaw, ex docente di storia medioevale «convertito» qualche decennio fa allo studio del nazismo e del ’900, sceglie dieci punti di svolta: si va dalla decisione del gabinetto di guerra inglese di continuare a combattere, nel giugno del 1940, fino alla determinazione presa da Hitler, tra l’estate e l’autunno del 1941, di avviare su scala industriale lo sterminio della popolazione ebraica.
Nel raccontare i «turning point» della guerra Kershaw non solo fa mostra di una prosa che sembra confermare il giudizio di Indro Montanelli sugli storici britannici («Sono gli unici in grado di farsi capire»), ma esplicita con efficacia alcune tra le premesse teoriche che stanno alla base della sua narrazione: l’attenzione alla cosiddetta storia controfattuale e ai rapporti tra personalità individuale e fattori strutturali nel divenire storico.
Quanto al primo punto Kershaw rifiuta un approccio controfattuale in senso stretto (è improponibile, dice, abbandonarsi a costruzioni del tutto ipotetiche «come se qualcosa non fosse successo»), ma allo stesso tempo respinge «l’impulso teleologico innato che ci porta a presumere che il modo in cui si sono svolte le cose fosse l’unico che potesse verificarsi». Troppo facile (e sbagliato), sapendo come è andata a finire una vicenda, interpretarne lo svolgimento solo alla luce dell’esito. Nella storia non esiste un «cammino inesorabile» che si è costretti a seguire in maniera rigidamente deterministica, spiega. E i protagonisti della storia sono di solito leader che prendono decisioni, fanno delle scelte, avendo a disposizione delle alternative. Così Kershaw valuta gli «elementi controfattuali», soppesando le diverse opzioni a disposizione dei leader e le eventuali conseguenze di scelte diverse.
Ma questi leader non sono semplici maschere che obbediscono a una parte. È sbagliato sottovalutare le forze che condizionano l’agire umano. Questo agire, però, «non è semplicemente riconducibile a una funzione personalizzata e rappresentativa di quelle forze». E la storia, almeno nel breve termine, «è invariabilmente il risultato dell’interazione tra fattori determinanti esterni e attori individuali».
Il singolo, dunque, conta. A dimostrarlo sono proprio le vicende raccontate da Kershaw. E una in particolare, in cui il fattore umano assume un ruolo straordinario. È quella che si svolge a Londra negli infuocati giorni del giugno 1940. Mentre la Gran Bretagna sembra sul punto di crollare sotto i colpi della Blitzkrieg tedesca, cinque persone, i principali ministri, si riuniscono nel gabinetto di guerra. In maggioranza sembrano esitanti, provati dalle vicende belliche, possibilisti su una richiesta di mediazione, avanzata dalla Francia, da sottoporre a Mussolini. Sarebbe una possibile via d’uscita, ma anche una dichiarazione di impotenza che indebolirebbe psicologicamente il Paese. A opporsi con tutte le sue forze è l’appena nominato premier Winston Churchill. In una drammatica seduta-fiume durata tre giorni, riesce a convincere i suoi colleghi.
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