Il redento Bedeschi Un fascista di Salò che diventò bestseller

Il redento Bedeschi Un fascista di Salò che diventò bestseller

Il peso dello zaino, con fatica, è sopportabile. Quello di Caino è insostenibile. Un marchio di infamia cui non ci si può sottrarre, solo dimenticare.
Di quanti combatterono sotto le bandiere di Salò - molti diventeranno poi intellettuali e uomini di spettacolo famosi come Marcello Mastroianni, Giorgio Albertazzi, Marco Ferreri, Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Roberto Vivarelli, Hugo Pratt, Giovanni Comisso, Dino Buzzati, Mario Sironi, Alberto Burri, Ernesto Calindri, Carlo D’Apporto, Enrico Maria Salerno... - furono pochi coloro che rivendicarono il proprio passato. Tanti dopo il 25 aprile e la Liberazione, preferirono cancellarlo. Dalla propria vita e dall’altrui ricordo. Anche se saltuariamente, a riscrivere la verità della Storia, spuntano frammenti di memoria insospettabili.
Ieri, su Avvenire, un dettagliato articolo di Roberto Beretta ha svelato il «lato oscuro» di Giulio Bedeschi (1915-90).
Ufficiale medico del corpo degli Alpini durante la Seconda guerra mondiale, è l’autore, tra tanti altri libri, del long seller sulla campagna di Russia Centomila gavette di ghiaccio, uscito dopo varie avventure da Mursia, nel 1963, e vincitore del Premio Bancarella l’anno seguente (nel 1966 uscì il seguito, Il peso dello zaino). Uno scrittore popolarissimo, amato generazioni di lettori, fatto leggere nelle scuole, a suo modo un eroe italiano. Ma fascista. Anzi, repubblichino. Anzi, addirittura comandante della Brigata Nera «Capanni» di Forlì. Una parte di vita della quale non compare alcuna traccia né nelle sue opere, né nel suo archivio. Né nei manuali di storia e di letteratura.
È vero: come testimonia Arturo Conti - presidente della Fondazione della RSI di Terranuova Bracciolini - «anche se Bedeschi nel dopoguerra non disse mai nulla sul suo passato, nel nostro ambiente la cosa era nota». Ma di fatto gli anni «imbarazzanti» scompaiono completamente dalle sue biografie, anche se non dalla memoria di chi combatté con lui o contro di lui. «Diciamo che il Bedeschi repubblichino è una cosa non molto diffusa, ma neppure sconosciuta».
E infatti, anche su Wikipedia, in due righe, viene detto che Bedeschi «dopo l’8 settembre 1943 si iscrisse al Partito Fascista Repubblicano e comandò la XXV Brigata Nera “Arturo Capanni” di Forlì». E persino alcuni commenti online ai suoi libri più famosi parlano di «scrittore sottovalutato» per via del suo passato fascista. Ora, però, Avvenire, rendendo noto il lavoro di uno storico locale bresciano, Lodovico Galli, svela al grande pubblico aspetti inediti del «fascistissimo» Bedeschi, federale di Forlì, direttore della rivista di regime Il Popolo di Romagna, «ragazzo» (aveva 28 anni) di Salò. E dal «buco nero» del suo passato ecco riemergere fotografie che mostrano il futuro scrittore mentre passa in rassegna i militi fascisti e due lettere a Mussolini (conservate all’Archivio di Stato a Roma e in copia al Centro Studi e documentazione della Rsi di Salò): nella prima, datata 2 marzo 1945, Bedeschi chiede per sé e i suoi soldati «l’ambitissimo privilegio di poter portare sul petto l’“M” d’onore del Duce», e nella seconda, di pochi giorni dopo, fornisce a Mussolini un appunto sulle condizioni della Brigata “Capanni”.
Dopo il 25 aprile, liberata l’Italia dai nazifascisti, è probabile che Bedeschi si sia nascosto nella zona di Thiene, nel vicentino, dove operava la sua Brigata. Di certo successivamente si trasferì a Ragusa, in Sicilia, dove rimase (defilato) fino al 1949.

Qui iniziò a scrivere Centomila gavette di ghiaccio, anche se il libro incontrò il rifiuto di ben 16 editori - che evidentemente temevano il passato repubblichino dell’autore - prima che Ugo Mursia, per paradosso un ex partigiano, decidesse di pubblicarlo (stampandone fino a oggi più di 4 milioni di copie). Correva l’anno 1963, e Giulio Bedeschi, ormai - come tanti altri - era un redento.

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