Cultura e Spettacoli

Ripellino, lo spirito russo di uno scrittore magico

Prosa "alta", cultura vastissima e intelligenza critica. Così il poeta-studioso indirizzò il nostro sguardo a Est

Ripellino, lo spirito russo di uno scrittore magico

Quando Angelo Maria Ripellino (1923-78), già professore di Filologia slava e Lingua ceca all'Università di Bologna e poi di Lingua e letteratura russa alla Sapienza di Roma, fu contestato dai suoi studenti sessantottini, ribatté loro con una lettera spiegando che nei fenomeni letterari non cercava risposte politico-sociali. Ma lampi, connessioni. E in effetti Ripellino, figlio naturale della Sicilia - da cui ereditò l'eleganza e la teatralità - e figlio adottivo della Grande Madre Russia - da cui acquisì insieme il senso dell'Apocalisse e quello del nichilismo - fu sempre affascinato dal ventaglio delle tonalità differenti che, a seconda dell'illuminazione e dell'angolo di osservazione, riflettono gli oggetti, i libri, i luoghi, le persone. Si dice «iridescenza».

E Iridescenze è il titolo scelto per la raccolta di recensioni letterarie (Aragno, 2 voll., pagg. 864, euro 60; a cura di U. Brunetti e A. Pane) che Ripellino sparse - come slavista, poeta, traduttore e critico - su quotidiani e riviste, dagli esordi precoci, anni Quaranta, agli ultimi fuochi, il 1976: L'Espresso, il Corriere della sera, L'Europa letteraria e per poco anche il Giornale di Montanelli. Pagine tutte stupende e molte disperse (la metà dei 180 pezzi qui raccolti appaiono in volume per la prima volta) che danno senso al coté militante, e meno conosciuto, di uno scrittore che all'intelligenza critica univa una scrittura unica: «Ripellino - è sicuro Antonio Pane, da anni alla testa di un pool di studiosi che finora ha pubblicato gli scritti di teatro, quelli politici sulla Cecoslovacchia, quelli per la Rai e quelli d'arte - è uno dei massimi prosatori del nostro '900, al pari di Contini, di Debenedetti, di Praz...». Si chiamano giganti.

Magro, alto, solare, lievemente baffuto, Ripellino - poeta come critico e critico come poeta: coltissimo quando scriveva versi, sensibilissimo quando firmava recensioni - fu un intellettuale eclettico, figura ormai scomparsa nell'epoca della specializzazione. Il Professore - il cui libro culto Praga magica, del 1973, ha guidato molti di noi in visita alla città d'oro - sapeva di tutto: di teatro, di letteratura italiana, altrettanto di cultura spagnola (iniziò come ispanista), ferratissimo nella storia dell'arte (ventenne, frequentò a Roma gli astrattisti del «Gruppo Forma 1»: Dorazio, Perilli, Turcato) e in quella del cinema (frequentò il Centro sperimentale di Cinematografia nella sezione di Regia). Ecco perché quando scrive di un autore, di un movimento, di un libro, giocoliere in bilico tra l'Accademia e il giornalismo, Ripellino è in grado di cogliere tutte le iridescenze del fenomeno, senza isolarlo nel campo letterario ma allargandolo - con citazioni, confronti, rimandi - alla moda, l'arredamento, il teatro, l'arte... La sua scrittura è spettacolo, le sue recensioni racconti. Eccole: pezzi sulla letteratura russa e boema soprattutto - Blok, Kafka, Majakowskij, Oblomov, Pukin, klovskij, Solenicyn, Tolstoj, Turgenev... - ma non solo.

Alcune tra le pagine imperdibili. Quando Ripellino parla del suo scrittore più caro, Borís Pasternak (bellissimo il pezzo del '63 «Una visita a Pasternak»), del quale per primo in Italia tradusse le poesie, nel '57, senza però amare mai il romanzo (lesse in bozze Il dottor ivago nel '56, in Polonia, ospite del critico e sceneggiatore Ziemovit Fedecki; rimase in una stanza col dattiloscritto e una caraffa di caffè, poi dopo due ore di lettura chiamò l'amico e gli chiese: «E se invece andassimo al cinema?»).

Quando spiega perché i popoli dell'Unione sovietica amino le trame poliziesche: «In tutto ciò è adombrata la condizione psicologia della Russia che in quel momento si sentiva minacciata dalle spie straniere e guardava con diffidenza all'Occidente».

Quando si sofferma sulle ragioni del successo universale del Buon soldato Svejk di Jaroslav Hasek, «il prototipo del dadaismo ceco» diventato «l'imbecille epico» (celebre il passaggio in cui mette in relazione Hasek e Kafka: «Sarebbe curioso seguire gli itinerari dell'uno e dell'altro per le strade di Praga: due soldati melensi con baionette, un mattino, conducono Josef vejk dal carcere del Castello, giù per il ponte Carlo, verso la Città vecchia; e in senso contrario, una notte, alla luce lunare, due nere figure in cilindro, con passo di automi, accompagnano Josef K. per lo stesso ponte, su verso la cava di Strahov, al supplizio»).

Quando smonta l'ampolloso, arrogante e guerrafondaio futurismo italiano (siamo nel 1960) che preannunzia l'avventura fascista. Quando mostra tutto il suo amore per la poesia cubofuturista degli anni Venti («il periodo d'oro della lirica sovietica») contro la «retorica patriottica» e la «superficialità pubblicistica» della poesia degli anni Cinquanta. Quando esalta il primo Evtusenko (che aveva attaccato «i pregiudizi e i feticci del terribile mondo staliniano»), ma critica il secondo che «sciupa il suo talento nell'oratoria»). Quando stronca - nel '63 - l'inerzia mentale dei nuovi registi teatrali sovietici formatisi «nelle grette condizioni dell'età staliniana». Quando demitizza i diari di Dostoevskij («Saremo sinceri: la sua difesa dello zarismo, certe sentenze politiche, la semplicistica valutazione del socialismo come antitesi del cristianesimo, l'incredibile giustificazione delle guerre: tutto ciò infastidisce e deprime»). Quando collega la Scienza e il fantastico in Bulgakov. Quando parla dei carri armati a Praga, dove la sua famiglia rimase divisa dopo la funesta primavera, e si intuisce che lo scrittore cominciò a morire quel giorno. O quando immagina la Lolita di Nabokov, trent'anni dopo, «ormai stagionata e disfatta dal soverchio esercizio amoroso»: «Certo Nabokov sa cogliere il mistero e persino il metafisica della Volgarità. Ma a ben guardare, attraverso il moderno scenario dell'America, dalle sue pagine fanno continuamente bye-bye Pitigrilli and Guido da Verona».

Il che spiega, anche, perché di penne come Angelo Maria Ripellino non ce ne sono più.

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