diIl carattere circolare del pensiero umano è dimostrato dalla comparsa di idee in cui genialità e idiozia si confondono. Tale è quella di valutare la produzione scientifica senza leggerla. L'idea chiave di tale trovata straordinaria è di contare le citazioni degli articoli. Il buon senso dice che si cita anche per ragioni estranee al valore del testo citato: per servilismo, per appartenenza di gruppo, o per screditare. La sociologia delle citazioni è nata proprio per dimostrare il carattere soggettivo di tale pratica. In spregio dell'evidenza, essa è stata rovesciata per farne un metodo «scientifico»: la «bibliometria», basata su parametri (h-index, impact factor) che indicherebbero la qualità delle pubblicazioni scientifiche e delle riviste che le ospitano. Ci vorrebbe molto spazio per descrivere questa pseudoscienza, spesso praticata da chi non ha più nulla da dire nel proprio campo; e per descrivere le dure critiche che hanno mostrato come tale sistema automatico non solo sia pieno di falle, ma incentivi le truffe, la creazione di cordate accademiche e il conservatorismo intellettuale. Difatti, chi sarà tanto sciocco da pubblicare in una rivista con una bassa quotazione? O si lancerà in ricerche innovative ignorate dalle correnti dominanti? Sta di fatto che in nessun Paese al mondo la «bibliometria» è un sistema di Stato per valutare la ricerca e promuovere gli avanzamenti di carriera: è usato localmente (in vari modi) da certe istituzioni, da altre no. L'Italia, arrivata per ultima, ha messo in campo la tendenza inveterata a introdurre statalismo e dirigismo burocratico ovunque sia possibile, costruendo una valutazione di Stato in mano a un'agenzia di Stato, l'Anvur. Il carattere universale del sistema ha posto però il problema che la bibliometria viene fatta da ditte private statunitensi per il solo settore delle scienze matematiche e naturali. I settori umanistici si sono ribellati a un sistema che avrebbe considerato inesistente la loro produzione. Così, è stato inventato per loro un sistema ad hoc, classificando le riviste in tre categorie, A, B, C. Tale classifica l'hanno fatta apposite commissioni, con risultati sorprendenti, talora evidentemente assurdi e fonte di ricorsi legali. I paladini di questo sistema accusano chi protesta di non accettare la «meritocrazia» e proclamano che l'intento è di superare, con giudizi «oggettivi», gli arbitri con cui nelle commissioni si facevano accordi indecenti. Già, ma in cambio si è offerta alle cordate accademiche un'opportunità ben più allettante. Difatti, chi riesce a piazzare le riviste proprie o di suoi amici in serie A o si impossessa delle riviste «migliori» controlla il processo di reclutamento dei giovani in modo totale e senza neanche la fatica di telefonare per costruire accordi e contrattare scambi. D'ora in poi, chi vuole andare avanti in un certo settore sa che, se non pubblica sulle riviste di chi comanda, è fuori gioco. È il passaggio dal feudalesimo alla monarchia e, in certi casi, all'impero.
Cosa fare? Tornare al buon senso e rinunciare all'obbiettivo di mettere le braghe al mondo. Le pubblicazioni si valutano soltanto leggendole. Se sono troppe, basta chiedere ai candidati di indicarne una decina che ritengono rappresentative della qualità della loro ricerca.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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