Cultura e Spettacoli

"Come saranno le città e le nostre case quando la pandemia sarà un ricordo"

Michele De Lucchi, architetto visionario e designer, in questa intervista ci spiega come cambieranno le nostre città e le nostre case una volta che la pandemia sarà solo un ricordo

"Come saranno le città e le nostre case quando la pandemia sarà un ricordo"

Metà aprile 2021: l’Italia, fino a pochi giorni fa completamente rossa, torna ad addolcire le proprie tinte, e torniamo - come un anno fa - a intravvedere, finalmente, l’uscita dall’ennesimo lockdown. Ma per quanto tempo, ancora, ne resteremo fuori? Ci avviamo a un ritorno alla normalità, o sarà solo - ancora una volta - un periodo di semilibertà, per ritrovarci poi a dover tornare giocoforza a rinchiuderci nelle nostre case? Le nostre case, appunto: un tempo “casa dolce casa”, deputata al nostro riposo, sede del nostro tempo libero e della nostra intimità, ora il luogo in cui viviamo ha subito uno stravolgimento funzionale di portata così notevole da essere, forse, cambiato per sempre. Se anche, come auspichiamo, torneremo presto alla normalità, molte cose - in primis la nostra casa - non saranno più le stesse. E, con esse, tutto ciò che ci circonda in scala di prossimità crescente: i nostri quartieri e i loro negozi, le nostre città, la natura che le penetra e le circonda. La questione è più che mai attuale, quindi: come saranno le città del futuro?

Michele De Lucchi, architetto visionario e designer, sarà tra coloro che domani, al festival Internazionale, proveranno ad avanzare delle ipotesi in merito. Lo abbiamo incontrato - rigorosamente per via telematica - per un’intervista proprio su queste tematiche. E prima ancora che gli ponessimo le nostre domande, è arrivata una sua premessa generale sul cambiamento che ci dobbiamo aspettare.

In questo momento ci domandiamo come cambieranno le città, se tutto rimarrà come prima o ci saranno dei cambiamenti profondi. In generale, la prima cosa da dire è che se oggi qualcuno mi assicura di sapere cosa succederà, io lo prendo per un falso e un bugiardo, perché non è possibile saperlo. Di conseguenza, non credo a nessuno che sostenga di saper dare una ricetta unica e complessiva, perché non è possibile fare di tutte le erbe un fascio, come verrebbe facile fare in questi momenti in cui sembra che tutto possa essere regolato da un'unica formula. Credo proprio che non ci saranno più le formule uniche e i dettami globalitari complessivi. Che non ci sarà più un'unica idea di città, un unico concetto di progresso. E che tutto sarà frantumato, così come abbiamo visto frantumarsi il nostro modo di concepire le giornate e di organizzare il lavoro, gli incontri e le conversazioni. Sta cambiando tutto, ma non solo: è fondamentale capire che cambierà ancora tutto. Ecco perché la forma mentis non deve essere orientata a un’ottimizzazione della contingenza attuale, ma dev’essere una forma mentis che costruisce un cambiamento continuo e che cavalca il cambiamento. Perché se non cavalchiamo il cambiamento abbiamo come unica possibilità quella di esserne succubi: e nessuno vuole esserlo, perché chi e succube del cambiamento esce dal giro e in breve tempo si sente isolato, emarginato.

"Questa casa non è un albergo", da frase fatta che le mamme rivolgevano ai figli, diventa forse un nuovo slogan. Come potrebbe esserlo il fatto che l'abitare dovrebbe essere come l'abito: deve calzare a pennello, essere comodo per ogni occasione. È forse questa la prima sensazione che hanno avuto tutti quelli che facevano della casa solo un punto d'appoggio per dormire?
"In realtà bisognerebbe dire alle mamme: d’ora in poi dite che questa casa È un albergo, perché quello che renderà sempre più funzionali gli ambienti e sempre più eccitante la vita saranno proprio il fatto di continuare a cambiare e quello di poter usufruire di tutti gli straordinari servizi che oggi ci sono concessi dall’organizzazione umana e dal mondo digitale. Viviamo e vivremo sempre più di questi servizi, e gli alberghi offrono servizi. C’è una previsione alla quale credo molto, e che credo dovremmo far presente ai nostri amici ristoratori arrabbiati: ovvero, che dopo la pandemia ci sarà un’esplosione di bar, ristoranti, caffetterie, pasticcerie, trattorie, pizzerie... ce ne saranno molti e sempre di più, con una grandissima richiesta di averne ancora. Perché abbiamo voglia di ambienti nuovi e posti nuovi. Ricordo che quando ero studente andavo in una splendida trattoria dove facevano le mezze porzioni (ma non lo erano veramente perché il cuoco si vergognava di portarle). La trattoria si chiama Le Mossacce, a Firenze, le consiglio di andare perché nonostante il nome ti trattano benissimo. Insomma, c’erano queste 10/12 persone che andavano sempre lì a pranzo e a cena; da una parte era bello, perché ti sentivi a casa, a me studente trapiantato piaceva andarci per vedere le stesse persone e mangiare le stesse cose. Ma, a ripensarci bene... era triste. La routine, la consuetudine ripetuta".

Tutto questo nuovo non rischia di portare una gran confusione?
"Perfetto: io sono pronto e siamo pronti in tantissimi. Abbiamo tanta voglia di vivere il mondo senza formati predisposti. E nei modi più facili: per esempio, andare in qualsiasi ristorante ma senza grosse difficoltà per prenotare: il vero servizio è quando ti senti libero. Qualsiasi millimetro di libertà in più è una conquista".

Tornando alle nostre case: come viverle in modo nuovo?
"Le nostre case sono fatte del confine tra l’intimo e il privato, il pubblico, il sociale. Quello è un confine che si muove, non è certo una linea tracciata in modo retto come certi confini tra i paesi del deserto africano. È uno spazio che io sto analizzando in modo profondo per i miei progetti più visionari e fantastici. Perché quel confine è uno spazio libero. Si ricorda le aree demilitarizzate del Vietnam o della Corea? Le zone franche, aree dove nessuno può andare a litigare, che erano diventate aree bellissime dove erano cresciuti fiori che non erano mai cresciuti prima, che si erano ripopolate di una fauna che non esisteva più da centinaia di anni. Spazi meravigliosi in cui si confondeva il confine della libertà di un popolo con il confine della libertà dell’altro popolo. Si mescolavano le libertà e le posizioni, gli atteggiamenti culturali, sacrali e le speranze del futuro. E sono stati proprio quello che poi ha costruito la pace, che ha fatto capire che ci vuole sempre uno spazio di mezzo che non deve essere un muro come voleva fare Trump, ma uno spazio vitale. Lei quando vuole conquistare qualcuno cosa fa? Io costruisco uno spazio nel quale posso sperimentare fino a dove mi posso spingere, e do alla persona che ho di fronte la libertà di entrare in quello spazio per capire fino a dove può andare. Per innamorarsi occorre capire fin dove puoi spingere il tuo senso di libertà, di desiderio, di seduzione, per combinarlo con quello del partner ambito. Quindi le nostre case dovranno avere anche dei bellissimi pianerottoli, perché oggi non solo sono brutti - ed è il difetto di tutti i condomini del mondo - ma sono un confine dove eviti sempre di guardare chi entra nell’altra porta del pianerottolo. Il futuro del mondo e la sostenibilità li possiamo creare solamente se cominciamo con le relazioni sul pianerottolo, se riusciamo a costruire le relazioni nei condomini, che oggi il più delle volte sono covi di vipere che sembrano non vedere l’ora di scannarsi alle assemblee".

Il cambiamento, quindi, passa giocoforza dai rapporti interpersonali?
"Si. La sostenibilità non vale niente se non comincia dalla sostenibilità dello spirito umano".

Dopo i lockdown, a fronte di un temuto crollo del mercato immobiliare, si prospetta forse invece un cambiamento. Bisogno di più spazio perché cambia il modo di abitare e vivere le case, voglia di balconi, terrazzi e se possibile addirittura giardini. Come sosteneva Gio Ponti, la casa italiana che si proietta verso l'esterno. Ma allora non conviene allontanarsi dal centro urbano, visto anche che la vita di ufficio per come era intesa cambierà probabilmente per sempre?
"La cosa da fare non è andare tutti a vivere in campagna, o tutti nei centri storici oppure nei villaggi, ma è mettere a posto queste schifezze di periferie che abbiamo. Se noi facessimo diventare Quarto Oggiaro il posto più bello del mondo lei crede che non andrebbero a vivere lì invece che in Piazza del Duomo? Noi architetti abbiamo sbagliato tutto, perché abbiamo standardizzato, abbiamo realizzato i condomini disegnando gli appartamenti tutti uguali come se le persone che ci vivono dentro fossero a loro volta tutte uguali. Il mio maestro Ettore Sottsass diceva che quando disegni un ambiente non disegni la forma dell’ambiente, o dell’oggetto, ma disegni i comportamenti di chi userà quell’oggetto o vivrà in quell’ambiente. L’architetto, quindi, disegna i comportamenti: se disegni le forme tutte uguali, disegni i comportamenti tutti uguali. E se tutti sono arrabbiati tutti sono arrabbiati: quindi bisogna disegnare i condomini disegnando le ragioni per cui si sta insieme, che sono sempre bellissime perché sono sempre delle ottime ragioni. E possiamo disegnare dei condomini per tutti quelli che lavorano con le mani, altri per tutti quelli che scrivono poesie, altri ancora per tutti quelli che fanno bene da mangiare: facciamo una serra bellissima per gli chef, dove si coltivano i pomodori, il basilico il rosmarino. Non più tutti gli appartamenti uno sopra l’altro con i terrazzini tutti uguali, ma edifici dove si sta bene, dove si condivide, con appartamenti tutti diversi. Le case dovranno nascere attorno alla serra, al laboratorio degli artigiani, alle biblioteche degli intellettuali o ai vasi dei fiori dei poeti".

E allora come si possono reinventare i centri storici, cosa che appare particolarmente problematica in Italia?
"Ma i centri storici vanno bene, perché sono un concentrato di diversità. Passeggiandoci, noi passiamo da un edificio neoclassico del ‘700 a un edificio autentico del ‘500, poi magari a un edificio di Gio Ponti: tutti belli. E poi incontri un edificio nuovo, appena costruito - che magari si poteva far meglio, ma va bene lo stesso - poi una vetrina nuova, e tante tipologie di negozi con vestiti diversi, accessori diversi, e attorno a te persone a loro volta tutte diverse...".

Ma questi negozi di cui parla hanno ancora un futuro?
"Se ci pensiamo, online si comprano più che altro le cose standard che dopo un po’ non vogliamo più. Il grande compito della nostra vita è coltivare la nostra curiosità, la nostra voglia di conoscenza, elaborare la nostra personalità ed essere riconosciuti per quello che siamo. Perché tutti siamo diversi e cerchiamo la diversità negli altri. Quindi tra un po’ Jeff Bezos avrà i suoi problemi. Sono convinto che l’artigianato non morirà mai, anzi: i ricchi del futuro saranno coloro che ancora possiederanno un artigianato. Arnault col gruppo LVMH è diventato il terzo uomo più ricco del mondo, e lo ha fatto comprando e vendendo solo aziende artigianali: il grande lusso è sempre artigianale, e oltre che lusso - specie per noi italiani - l’artigianato è sperimentazione: lo vediamo benissimo durante il Salone del Mobile, tutti i campioni e i prototipi sono prodotti usando l’artigianato proprio come strumento di sperimentazione".

A proposito di design: nel nuovo, prossimo abitare, e in una nuova economia, il design può finalmente tornare a concentrarsi sull'usabilità piuttosto che lasciarsi andare a derive meramente estetiche?
"Devo citare ancora Ettore Sottsass che mi faceva vedere le sedie dell’ufficio quando non c’era seduto nessuno e mi chiedeva se secondo me quelle sedie erano sedie. Io dicevo di sì, ma lui ribatteva dicendo che erano delle presenze nel mio ambiente; oggetti che fanno l’ambiente, che senza nessuno seduto sopra sono più delle sculture che non delle sedie. Diventano sedie nel momento in cui qualcuno ci si siede. Questo vuol dire che tutti gli oggetti parlano, non sono solo funzionali e non parlano solo di quello a cui servono, ma parlano di tante altre cose. Mio padre, che faceva l’estimatore immobiliare e degli oggetti antichi, quando prendeva in mano una scatola sapeva come era stata fatta e in che anni, e da quale parte del mondo arrivava. Sembrava che gli oggetti gli parlassero, raccontandogli la loro storia. E io volevo sapere come faceva: conoscenza, certo, ma anche la sensibilità per capire che tutto ha un racconto. Tornando al discorso di prima, le cose fatte a mano hanno quindi un valore superiore di quelle fatte a macchina e stampate. Ma voglio anche dire che è importantissimo che artigianato e industria convivano, che non siano due opposti che si combattono ma due esigenze della personalità dell’uomo, del nostro bisogno di essere parte della contemporaneità: industria automatizzata perfetta ma anche qualità manuale altrettanto perfetta".

Tutti gli oggetti, quindi, hanno un’anima?
"Sì, e anche tutti gli edifici. E se gli edifici hanno una brutta anima chi ci abita dentro ne soffre. In un ambiente brutto, basso e spigoluto ti senti male: puoi provarci, ma non stai bene. Se vivi in un ambiente bello, con magari un bel paesaggio davanti sei positivo, ottimista e felice. Le cose brutte abbruttiscono".

Quale sarà l'impatto della progettazione attenta a materiali e questione energetica nelle case a venire?
"Le tecnologie sostenibili già oggi valgono tantissimo: anzi, chi vuole investire sa che è un investimento fondamentale. Se però si vuole proiettare la nostra immaginazione più avanti possibile bisogna proiettarla in un mondo attento all’equilibrio delle risorse, con un senso del consumo fisico delle cose del tutto diverso da quello di oggi. Però devo anche ribadire che un mondo tutto sostenibile senza persone sostenibili non funziona. Dobbiamo costruire gli uomini sostenibili, perché se è chiaro che il mercato del futuro è il mercato dei consumi sostenibili, lo è altrettanto che non funziona se non lo sono anche gli uomini. E noi italiani possiamo farlo meglio degli altri, perché tra tutte le arti quella più bella è l’arte di saper vivere e come l’italiano non c’è nessuno. E questo ci viene riconosciuto: quando vado a lavorare in Cina, in Giappone, in Russia, non mi vogliono per le mie costruzioni, ma perché vogliono conquistare i segreti del vivere bene. Quando tu chiami il fabbro per ripararti la serratura non vuoi che lui ti venda “la serratura”: vuoi che ti venda la sicurezza. Lo stesso vale per gli architetti: non vuoi che ti costruiscano le case di marmo con le maniglie d’oro, ma chiedi che ti forniscano il necessario per vivere bene".

Come si sposa la filosofia del suo progetto Earth Stations con la nuova realtà a cui andiamo incontro?
“Earth Stations” può far venire in mente la Luna, Marte, Giove, i viaggi interplanetari, e invece non ha niente a che fare con questo. Le Earth Stations sono le stazioni del pianeta Terra, perché in questo momento di trasformazione cosi travolgente in cui la sostenibilità è diventata il grande e unico vero tema abbiamo bisogno di stazioni, di luoghi in cui fermarci per capire dove vogliamo andare, e da cui ripartire. Però se da architetto le cose che mi chiedono sono da fare in fretta - al massimo entro tre anni per riuscire a stare nei tempi dell’evoluzione - questo non mi aiuta per capire cosa ci sarà dopo. Io voglio parlare con un cliente del 2050 che mi chiederà di progettare un edificio! Cosa mi chiederà? Me lo sono inventato, il cliente del futuro: il cliente delle Earth Stations. Le esigenze di cui abbiamo parlato finora sono quelle delle relazioni tra le persone, delle connessioni e interazioni. Gli uffici, i musei, i centri commerciali sono i luoghi dell’interazione. Gli ospedali, le scuole... sono tutti luoghi di interrelazione personale. Prendiamo ad esempio gli uffici: non sono più fatti per battere a macchina, ormai c’è la voice recognition che scrive sotto dettato mentre parli: perché andare quindi a chiudersi in uffici con file di scrivanie? Ormai si devono progettare gli uffici come i luoghi dove la creatività di ciascuno diventa la creatività di tutti. Ho progettato le mie Earth Stations con degli ipotetici uffici, delle scuole, laboratori, biblioteche del 2050. Per un ipotetico, possibile cliente che io non vedrò mai, ma che vedranno i giovani delle nuove generazioni. Ho cambiato il nome del mio studio, che non si chiama più “studio dell’Architetto Michele De Lucchi” ma “The Circle”: perché metto in circolo la gente, le persone, le idee, i progetti, le speranze, i sogni: metto in circolo tutto".



Quindi oggi più che mai bisogna essere visionari e la visionarietà deve arrivare da quello che saremo come persone?
"Esattamente, ma senza litigare".

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