Il caso è noto. Anzi è l'affaire per eccellenza. Quando il capitano, di origine ebraiche, Alfred Dreyfus (1859-1935) venne ingiustamente condannato, tra il 19 e il 22 dicembre 1894, la Storia cambiò. Prima ci fu una violenta campagna stampa razzista e antisemita. Tanto che il giorno in cui Dreyfus fu degradato, prima di essere spedito ai lavori forzati, si rischiò il linciaggio. Così in un giornale dell'epoca, le Journal, il racconto dei fatti: «Quando rimase disonorato e disarmato, le spinte istintive della folla reclamarono con maggior furore che si uccidesse questo pupazzo». Solo a processo ultimato, quando Dreyfus era già stato spedito sull'Isola del Diavolo, si risvegliò un'altra parte della stampa, che ragionando sul caso riuscì a dimostrare che l'accusa di tradimento, a favore dell'odiata Germania, era alimentata dai risentimenti dei colleghi per la carriera dell'ufficiale e dal pregiudizio verso la minoranza religiosa di cui faceva parte. E di questa coraggiosa battaglia di civiltà e giustizia quasi tutti ricordano solo il J'Accuse di Émile Zola pubblicato da L'Aurore il 13 gennaio 1898. Eppure quasi tutta la stampa «dreyfusarda» di allora, attenta più a ricostruire i fatti che ad accusare, pensò compattamente che quell'articolo facesse più male che bene (Dreyfus fu graziato nel 1899 dal presidente Loubet, la revisione del processo arrivò nel 1906).
Ecco allora che il saggio Il caso Dreyfus e la nascita dell'intellettuale moderno di Agnese Silvestri (Francoangeli, pagg. 414, euro 37) consente di rivivere passo per passo la presa di coscienza dei giornalisti e degli scrittori francesi dell'epoca. E quindi non solo Zola. Il libro infatti fornisce la traduzione di moltissimi dei loro articoli, ignoti in Italia. Consente di ricostruire la prima ribellione al potere opprimente dello Stato e a una magistratura che giudica a «priori».
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