Nella Monadologia, Leibniz scrive che il passato è gravido del presente, il che a ben vedere dovrebbe preoccuparci. Cè sempre il rischio di apprendere che siamo figli di unentità pericolosa, di accorgersi di avere ascendenti poco raccomandabili che protendono i loro tentacoli verso di noi, rivendicando una sgradevole patria potestas. È quanto accade nel romanzo - storico e immerso nel presente - di Massimiliano Comparin. Il protagonista de I cento veli (Dalai Editore, pagg. 271, euor 9,90), Alessandro, è uno yuppy tutto edonismo e fatuità. Fra il piacere che prova nellentrare nel suo SUV dai lussuosi sedili di pelle, e il confort promesso dalla sua fidanzata, Gaia, cè una differenza di grado, non di specie. Una stupida cecità narcisistica clamorosamente cancellata da un evento imprevedibile: una sera, tornando a casa, Alessandro scopre che Gaia è scomparsa, ma soprattutto comprende che non la conosceva affatto. Non aveva mai subodorato, a esempio, che non aveva origini italiane e che si trattava di «una bellezza slava» fatta di zigomi alti e di una costituzione delicata.
Cercarla, aggrappandosi alle deboli tracce lasciate dalla ragazza, vorrà dire entrare nel ginepraio etnico e ideologico della Venezia Giulia e più in generale dei Balcani. Perché Gaia, si scoprirà, non proviene da una famiglia qualsiasi: è la nipote di una figura sinistra, del principale organizzatore dei massacri perpetrati in Jugoslavia alla fine del secondo conflitto mondiale. Sospettato di essere coinvolto nella scomparsa della sua compagna, ma per il momento a piede libero grazie allintuito di un maresciallo dei carabinieri che è forse il personaggio più riuscito del romanzo, Alessandro raggiungerà Trieste per poi ritrovarsi a rasentare, non solo metaforicamente, il bordo delle foibe, luogo simbolico in cui la grande Storia incrocia la sua, minima e personale.
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