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Ma se oggi tornasse Gesù, sapremmo riconoscerlo?

Il nuovo romanzo di J.M. Coetzee narra il rapporto tra un «padre» e un bambino Ma in realtà è una riflessione sul mistero dell'umano. E sulle domande del Vangelo

Ma se oggi tornasse Gesù, sapremmo riconoscerlo?

Sono David e Simon, due pellegrini in viaggio. Vengono dal deserto, da un campo chiamato Belstar, vanno verso una città, Novilla. David ha cinque anni, Simon è anziano. Cercano un'abitazione. E una stanza per loro ci sarebbe, ma la responsabile ha perso le chiavi. Trascorso un tempo di disavventure e rivelazioni, si scopre che la stanza era già aperta. In poche righe di narrazione ci sono Kafka e Shyamalan, Orwell e Yehoshua, Spielberg e Freud (cinque anni è l'età oltre la quale siamo già formati, secondo Freud, già irrimediabilmente nevrotici e perversi), McCarthy e Beckett, De Lillo e Magritte.

Potrebbe essere la storia di un uomo che vorrebbe essere padre ma non sa come si fa. Potrebbe essere la storia di una madre che attende di ritrovare suo figlio. Potrebbe essere la storia di uno scrittore che ricorda, vista la complessità emotiva e cognitiva di cui dà prova da adulto, le origini infantili di quella stessa personalità complessa. Potrebbe essere la storia di una umanità distopica o di una città distopica di nome Novilla, che come tutti i luoghi e le masse distopiche della letteratura potrebbero trovarsi ovunque e in nessun luogo e proprio per questo rappresentano tutti noi in quanto masse e luoghi portatrici di desiderio, speranze e atrocità. Potrebbe.

Ma L'infanzia di Gesù di J.M. Coetzee (Einaudi, pagg. 256, euro 20; trad. Maria Baiocchi) è quello che il suo autore voleva che risultasse, cioè quello che dice il suo titolo. Anche se non parla affatto della Palestina di duemila anni fa (o forse sì: il campo di Belstar; la ricerca di un rifugio che non c'è e poi era aperto a tutti e non servivano le chiavi; lo stesso Davide, re d'Israele, da cui Cristo discende, per gli ebrei, e dalla cui stirpe cui Giuseppe discende quel Davide che nacque a Betlemme e morì a Gerusalemme). Anche se non riproduce affatto, magari distorcendoli e metamorfizzandoli - come invece accade in tanti adattamenti contemporanei di testi classici - né gli episodi della Bibbia né le sue parole.

Questa dunque è la storia di «quel» bambino così come lo vedremmo noi oggi, secondo Coetzee, nel momento in cui s'incarnasse di nuovo. Lo «riconosceremmo»? «Avrei desiderato che il romanzo apparisse con una copertina bianca e senza titolo. Cosicché solo dopo aver consumato l'ultima pagina il lettore avesse il primo incontro col titolo.

Ma nell'industria editoriale contemporanea questo non è permesso»: così in un reading di presentazione all'Università di Città del Capo, il Nobel sudafricano 2003 ha spiegato la visione che sta dietro al suo ultimo libro. Così enigmatico e disturbante che è quasi passato inosservato, sia dalla critica che dal pubblico. Eppure il linguaggio è il più semplice che esista: quello parabolare. E se nulla di quel che viene raccontato riguarda Gesù come lo conosciamo dalle scritture, tutto lo riguarda: perché le domande che scaturiscono dalla lettura di questo romanzo sono le stesse suscitate dalla vicenda originale e riguardano il senso della vita e della verità e la via da percorrere per attraversarle.

Che Coetzee sia o meno credente, ha individuato nell'infanzia di Gesù, o meglio nel suo racconto, il nodo esistenziale. Che cosa accadrebbe però oggi, se ci trovassimo di fronte a un bambino, caparbio più di un mulo, che rifiuta ogni convenzione e risposta confezionata dagli adulti, persino dall'unico adulto che dovrebbe ascoltare, un vecchio che lo sta conducendo da sua madre? E ancora: a chi conosce un po' i bambini e ha voglia ascoltarli, questo non sembra l'identikit di qualsiasi bambino? Certo David è molto intelligente e incorruttibile e profondo. David è l'unico bambino di cinque anni a cui, per imparare a leggere, viene proposto il Don Chisciotte e il riconoscimento del fantastico. Ma di fatto è proprio la sua durezza cristallina che catalizza solo le grandi domande.

Coetzee racconta sì un viaggio, un'iniziazione, uno scambio di verità tra un uomo e un bambino.

Ma racconta soprattutto un mistero: il piccolo David è tutto purezza e efficacia, come solo un piccolo profeta misterioso potrebbe essere. Oppure siamo noi che lo vediamo così perché noi umani imperfetti, portatori e insieme uccisori di verità, abbiamo bisogno di purezza e efficacia insieme? Sono le stesse domande che si saranno fatti i Dodici, quando sono stati chiamati a seguire Cristo? Sono le stesse domande che si sarà fatta la sua stessa madre, pur avendo ricevuto la visita di un angelo che le aveva preannunciato quanto di eccezionale stava per accaderle? Sono soprattutto le stesse domande che si sarà posto Giuseppe, il padre, l'unico che nel Vangelo non parla mai, al contrario di tanti padri di oggi, che reggono il ruolo in modo così incerto da doverci scrivere ad ogni passo un racconto o un romanzo sopra?

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