Secoli e secoli di galeoni, vele, canaglie e cannoni

Quando si usa la parola «pirata» è sempre difficile non scivolare immediatamente nel mito, nel fantastico. Il corsaro, il bucaniere (e qui ci scusi chi sa che queste parole sono sinonime solo sino a un certo punto) è ammantato, quasi inevitabilmente, di un’aura fantastica. Finiamo, senza volere, per figurarcelo come Sandokan o come Capitan Uncino, per immaginarcelo intento a seppellire un tesoro o a spingere un malcapitato sulla passerella.
La Storia della pirateria (Odoya, pagg. 348, euro 20) di Philip Gosse (1879-1959) è un classico sull’argomento che, a differenza anche di libri più recenti, è capace di raccontare secoli e secoli di guerra «di corsa» senza lasciarsi prendere la mano o innamorarsi dei personaggi. Appena ripubblicata, dopo una lunga assenza dagli scaffali delle librerie italiane, è stata arricchita di un nuovo apparato di immagini e mantiene il suo ruolo di testo fondamentale, la sua capacità di raccontare con scorrevolezza e precisione le intricate vicende dei predoni del mare. Così se il testo è per sua natura divulgativo anche l’esperto in materia trova spunti sempre interessanti.
Le pagine sulla pirateria che infestava le coste africane e soprattutto quelle dedicate ai suoi sviluppi ottocenteschi, con le feroci imprese di Benito de Soto, sono delle vere chicche. Lo spazio dedicato ai pirati mediterranei, come il terribile Dragut, che fu tra i più accaniti nemici di Andrea Doria, è notevole e racconta al lettore un mondo corsaro molto diverso da quello proprio della fantasia cinematografica.
Se nell’immaginazione hollywoodiana i pirati portano sempre laceri tricorni e sventolano la «Jolly Roger» - e il libro di Gosse a pagina 245 sulle varie versioni della «Jolly» vi renderà più che edotti - nella realtà la vera grande culla della pirateria, tra Quattro e Cinquecento, è stato il Mediterraneo, diviso com’era dall’eterno scontro tra turchi e cristiani. Anzi lo stato di guerra permanente, la fragilità delle alleanze cristiane (la Francia spesso aiutava i pirati della Mezzaluna per colpire l’Impero spagnolo) finì per consentire ai corsari più intraprendenti di creare veri e propri stati autonomi sulla costa africana. Da lì partivano per feroci incursioni sulle loro veloci galere, di cui spesso il bersaglio erano proprio le coste italiane. Quindi il pirata per eccellenza potremmo immaginarcelo con il turbante e la barba rossa come il cristiano rinnegato Aroju Barbarossa, oppure preferire a Henry Morgan l’italianissimo Uluj Alì che rapito in Calabria dove studiava per diventare prete si trasformò poi, anche per salvarsi la pelle, nel terrore marittimo dei correligionari.
Senza contare che i corsari mediterranei, una volta che Simon Danser gli ebbe insegnato a costruire «vascelli rotondi» (leggasi velieri atlantici), iniziarono a farsi largo anche nell’Oceano sino a minacciare l’Inghilterra e addirittura l’Islanda (assalita nel 1627).
Detto questo, anche le pagine sui bucanieri propriamente detti sono approfondite seppur ridotte per estensione rispetto ad altri volumi come Storia della pirateria di David Cordingly (che però ogni tanto è vittima di afflati romantico romanzeschi). Ma forse la forza del lavoro di Gosse (che continua a essere ripubblicato sin dal 1932) è proprio quella dell’essenzialità e del rispetto dei fatti.

Se vogliamo, la scelta di prendere atto che per quanto affascinati i pirati fondamentalmente erano feroci criminali e non eroi libertari (così li ha raccontati recentemente Hakim Bey nel suo Le repubbliche dei pirati) è quella che ha garantito l’inossidabilità dell’opera, che resta propedeutica e fa da pietra di paragone a tutto quello che è stato scritto dopo.

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