STORIA D’ITALIA DEL XX SECOLO

Grandi motivi ideali dietro il conflitto che riconquistò le terre irredente

La Grande Guerra: unica nelle vicende d’Italia a potersi fregiare dell’aggettivo «grande». Perché tale fu veramente. Lo fu nell’entità numerica dei combattenti, lo fu nel coinvolgimento dell’intero Paese, lo fu nella tragica e sconvolgente entità del disastro di Caporetto. Lo fu nelle dimensioni e nelle conseguenze politiche, economiche e sociali della vittoria. Grande davvero: il che non significa che vi fosse un consenso maggioritario per l’intervento a fianco dell’Intesa né che i contadini analfabeti del Meridione, mandati a immolarsi sulle pietraie del Carso, capissero bene le ragioni di quello scontro di giganti e del loro sacrificio.
Senza dubbio la Grande Guerra ebbe motivazioni ideali importanti, prima tra tutte il ricongiungimento delle terre irredente alla madrepatria. Ebbe pure, lo sappiamo bene, un’influenza decisiva su ciò che accadde dopo la vittoria, esaltazioni e frustrazioni che contribuirono senza dubbio a gettare il seme del fascismo. Il che non costituisce una buona ragione per oscurare gli atti di straordinario coraggio e i fulgori dai quali fu costellata.
La narrazione nitida e brillante di Valerio Castronovo mette in luce i molti aspetti d’una vicenda convulsa e complessa (un capitolo di quest’evento in prevalenza maschile è giustamente dedicato a «Le donne nella mobilitazione civile», un aspetto troppo spesso dimenticato). Abbiamo superato il tempo della retorica patriottica un po’ melensa: ci rendiamo conto che ogni guerra, ma soprattutto una Grande Guerra, è fatta di tanti morti umili, di gesta d’uomini intrepidi, di innumerevoli ingiustizie, anche di «pescecani» (come si disse nel gergo d’allora), ossia di industriali spregiudicati che lucravano e s’arricchivano sulle forniture belliche.
Sia nella Prima sia nella Seconda guerra mondiale i nostri stati maggiori ebbero sugli altri belligeranti un enorme vantaggio; l’Italia entrò nel conflitto diversi mesi dopo la sua deflagrazione, i capi militari furono in grado d’assistere a quanto accadeva nelle altrui zone d’operazione, e di trarne un prezioso insegnamento. Per la precisione, avrebbero potuto essere in grado di trarne un prezioso insegnamento, ove ne avessero avuto la capacità. Né Luigi Cadorna nel 1915, né Pietro Badoglio nel 1940 profittarono dell’opportunità. Cadorna s’intestardì negli attacchi frontali che disseminavano di migliaia di cadaveri la linea del fronte, quanto a Badoglio, la sua filosofia parve consistere nel non far nulla, e lasciare ai tedeschi l’incombenza di vincere.
Cadorna ebbe qualità di carattere, e bisogna riconoscere che tutti i maggiori generali d’allora, a cominciare dagli stranieri, furono «macellai», ossia insensibili alle perdite di vite. Ma lui fu arrogante anche quando aveva torto e sbagliava, e si circondò a Udine, dove aveva installato il quartier generale, d’una corte d’incensatori, anche di gran livello culturale. Le ricompense al valore grandinavano da quelle parti, e il famoso scrittore e giornalista Ugo Ojetti, incaricato di verificare dopo la presa di Gorizia se le opere d’arte della città avessero subito danni, fu premiato con la medaglia di bronzo. Il che - in un’epoca di ironia sottile - gli valse questo epigramma: «Ancor che al monte austriaca minaccia / duri, tu varchi intrepido l’Isonzo / e una medaglia arride alla tua faccia, Ugo, di bronzo».
La Grande Guerra ebbe luci e ombre. Le ebbero tutte le grandi guerre, e anche le piccole.

Tuttavia, nel percorso relativamente breve d’una Italia approdata all’Unità dopo secoli di servaggio, quella prova suprema resta memorabile e ammirevole. Ebbe un senso. Ebbe un’anima. Ebbe connotazioni epiche. Fu coronata dalla vittoria.

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