Cultura e Spettacoli

Sulla Salerno-Reggio Calabria è in coda tutta l’Italia dei trasporti

Chi la percorre, soprattutto d’estate, non la può più dimenticare, anche se vorrebbe. I suoi 442,9 chilometri, dove il cantiere eterno regna sovrano, si trasformano in un viaggio estenuante. Un viaggio che si sa quando inizia, ma non si sa quando finisce. Un calvario a code e ostacoli diventato ormai leggenda, scandalo, barzelletta, luogo comune, vergogna nazionale.
Eppure quando fu ultimata, nel 1974, la Salerno-Reggio Calabria, tratto finale della A3, vantava innumerevoli primati. La maggior opera pubblica realizzata direttamente dallo Stato, il viadotto con i piloni più alti d’Europa (orgogliosamente battezzato «Italia»), soluzioni tecniche di primissimo piano che sfruttavano come mai prima le qualità dell’acciaio e del cemento precompresso. Una realizzazione sì decennale ma che, date le difficoltà orografiche affrontate, non si poteva definire lenta.
Allora da che cosa è nato il disastro viabilistico, l’ingorgo perenne, il fallimento del sogno di fornire al Sud il suo percorso a scorrimento veloce? Prova a spiegarlo Leandra D’Antone in Senza pedaggio. Storia dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria (Donzelli, pagg. 121, euro 14,50). Un saggio breve e pieno di curiosità che parte da questa tormentata arteria ostruita per raccontare in pillole tutta la storia del sistema viabilistico italiano.
Così si scopre che a uccidere la Salerno-Reggio non è stata l’inefficienza tecnica, e nemmeno la lunga (innegabile) mano della criminalità sui cantieri. Ma piuttosto l’idea che alla velocità di percorrenza, alla facilità di progettazione, andasse preferita l’idea dell’opera che accontentasse tutti. Si ritenne preferibile far passare la strada nel mezzo montagnoso della regione per risollevare l’economia locale, piuttosto che puntare a un collegamento rapido con la Sicilia. Si ritenne fondamentale che fosse senza pedaggio, piuttosto che adatta a portare grandi flussi e facilmente ammodernabile.
Da lì il calvario, aiutato da quei governi che non hanno mai creduto al sogno delle infrastrutture, come il Ponte sullo stretto, e le hanno sempre considerate solo elargizioni elettorali.

Così chiudendo il libro si impara molto ma ci si sente un po’ più tristi.

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