Cultura e Spettacoli

Il talento difficile dell'anticonformismo. Chi ce l'ha e chi no

Antonio Pascale usa tutti i cliché del politicamente corretto. Paolo Nori invece non ha paura di provocare e di rischiare

Il talento difficile dell'anticonformismo. Chi ce l'ha e chi no

A pagina 24 ho chiuso il libro e, per non scaraventarlo dalla finestra, sono andato in cucina a farmi 30 gocce di melissa. A pagina 34 l'ho richiuso perché nonostante la forte dose di erba sedativa ho percepito imminente l'attacco di bile. Il colpevole di tutta questa agitazione è il libro di Antonio Pascale, Le attenuanti sentimentali (Einaudi), sul quale avevo riposto tante speranze. Dello scrittore campano avevo letto articoli pro-inceneritori e anti-bio, musica per le mie orecchie industrialiste, e mi aspettavo molto da questa prova narrativa, anche per via di Einaudi che è garanzia di bella scrittura e buona carta (per me, che sono un edonista tattile, la carta è importante). La buona carta c'è, la bella scrittura pure, ma l'atteso anticonformismo si riduce a qualche ritornello contro gli Ogm e i vini cosiddetti naturali (la battuta migliore sull'argomento rimane quella del mio amico Francesco Valentini, eccelso produttore di Trebbiano: «Il vino naturale è l'aceto»). Per il resto è una collezione di stereotipi cari alla sinistra di cui Pascale fa parte, come ci ricorda lui stesso una pagina sì e l'altra pure: i pezzi di Repubblica, i locali Arci, le librerie Feltrinelli, l'omosessualismo, l'immigrazionismo, il biciclettismo... E siccome siamo a Roma (Pascale è un inurbato), il morettismo: lo scrittore abita nello stesso quartiere del regista, Monteverde, e come Moretti è un cinefilo nevrotico con il vizio di atteggiarsi ad anticonformista senza mai esserlo veramente. Soprattutto: senza mai rischiare nulla, sempre protetto dal contesto.

Bisogna sapere che Pascale è un ministeriale e per giunta part-time ovvero un piccolo privilegiato che vive sulle tasse, un letterato socialmente inquadratissimo, l'opposto di un maledetto. Non è il nuovo Charles Bukowski né il nuovo Charles Baudelaire, tantomeno il nuovo Ezra Pound, e quando critica l'omeopatia o la macrobiotica forse si gioca la simpatia della documentarista vendoliana che coabita al Pigneto ma non lo stipendio, non le ferie pagate, non la pensione, non le collaborazioni e i contratti. Comunque la cosa che di Pascale mi ha fatto davvero inferocire non è il suo essere di sinistra (dovrei prendermela col 90% degli scrittori italiani...) ma l'improntitudine di riesumare, in questo suo libro disperante, la sepolta figura del meridionale allupato. Un cliché già vecchio al tempo dei film di Lando Buzzanca, forse perfino dei libri di Vitaliano Brancati, figuriamoci oggi, con una Basilicata dissanguata da un tasso di fecondità fra i più bassi del pianeta.

Secondo Pascale sarebbe tipico dei maschi meridionali «guardare il culo di una che passa, o corteggiarla». Invece i maschi centro-settentrionali, beninteso quelli ben orientati, cosa osservano? Non esistono sguardi e corteggiamenti a nord di Roma? Perché prima di scrivere un libro sui sentimenti non ci si aggiorna, non ci si informa? Forse per poter accumulare duecento e passa pagine (grazie ad altre gocce di melissa il giorno dopo sono arrivato in fondo) di considerazioni sull'amore degne di una fiction televisiva, intervallate da deprimenti scientismi secondo i quali il sentimento è «roba chimica, nasce da meccanismi evolutivi».
Per riprendermi ho aperto La banda del formaggio (Marcos y Marcos) di Paolo Nori. Lo scrittore parmigiano è un anticonformista vero. Innanzitutto non scrive coperto dal contribuente ma sostenuto da chi liberamente sceglie di comprare i suoi libri, di procurarsi i suoi articoli, di partecipare alle sue letture, di iscriversi ai suoi corsi. Come in America. Sia lui che il suo personaggio (che molto gli somiglia) vanno in bicicletta ma non per teorizzare come fa Pascale, semplicemente per pedalare. In Emilia la bicicletta è qualcosa di naturale, qualcosa che è nel sangue, e io lo so bene perché vado in crisi di astinenza ogni volta che, per colpa di un viaggio, passo più di tre giorni lontano dalle mie zone pedonali, dalle mie piste di Parco Ducale e Cittadella. Tecnicamente Nori è un anarco-conservatore, un ribelle quasi jüngeriano, ma è meglio sussurrarlo perché il pubblico delle Feltrinelli non deve sapere. È un misoneista e, nonostante sia criticato per il linguaggio ultracolloquiale e ben poco grammaticale, un purista. Non può soffrire la parola «escort» e nemmeno la parola «reading».

Ne La banda del formaggio paragona le lingue straniere a quelle chiavi difettose che ti fanno imprecare per dieci minuti prima che la serratura scatti: «Usare una lingua che non è la tua sarebbe un po' la stessa cosa ma moltiplicata per un milione. Ho l'impressione che se avessi abitato gli ultimi dieci anni a Berlino io tutti i giorni avrei avuto in gola quella voglia di piangere». Nori non scrive di amore perché un conservatore è pudico, non mette il letto in piazza. Anche di politica parla il meno possibile e quando lo fa non scrive come Pascale «voto a sinistra in fondo» ma corre il rischio di inimicarsi tutti: «E a Parma avevan votato, e erano andati al ballottaggio uno del Partito democratico e uno di un partito nuovo. E mi avevano chiesto, un quotidiano, che risultato mi auguravo, per il ballottaggio di Parma, e io gli avevo risposto che non mi auguravo niente».


Perché se uno scrittore non corre qualche rischio vero, è solo uno dei tanti.

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