Dai tempi della Cardella la Mondadori non ha mai trovato davvero una nuova Cardella, e Fazi sta ancora cercando una nuova Melissa, e E/O si starà dando già da fare per trovare una in grado di essere la nuova Di Grado, perché certe fortune chimico-editoriali capitano una volta sola. Mica c'è solo il femminicidio delle mogli uccise dai mariti, esiste pure il femminicidio editoriale.
Un editor molto angosciato è Michele Rossi della Rizzoli, che dopo la vittoria della Avallone è sempre in cerca di una «nuova Avallone». Qualche anno fa pensava di averla trovata, annunciandola in pompetta magna a Affari Italiani: ecco la «nuova Avallone», è Barbara Di Gregorio. Tra poco, sempre lì in Rizzoli, sarà il turno di Veronica Raimo, che a questo punto punterà a essere la nuova Emanuele Trevi, con la differenza che la Trevi non ha vinto lo Strega, e la Raimo almeno è una strafiga.
In tutto questo viavai non si parla della migliore della scuderia, che se ne sta zitta zitta in un angolino e si chiama Teresa Ciabatti. Io l'ho cercata dopo aver letto per caso il suo Il mio paradiso è deserto (pagg. 281, euro 17), l'ho invitata a bere qualcosa al Caffè delle Arti, non per intervistare lei ma per intervistarmi su di lei. Mi ha detto «Ti avviso, sono obesa». E io: «A me cosa cambia, scusa? Mica è un casting di Woodman». E lei: «Mi sento meglio io a dirlo». E poi ho pensato che così avrebbe risposto Marta Bonifazi, la bambina grassa protagonista del suo romanzo, figlia di Attilio Bonifazi, potente imprenditore romano in grado di far cadere governi («C'era qualcuno che lo chiamava l'Ottavo re di Roma. Sbagliava. Attilio Bonifazi non era re, era lui Roma»). E come Marta neppure Teresa esce mai di casa, «perché tanto chi devo incontrare», mi è rimasta subito simpatica.
È un romanzo che procede di capitolo in capitolo con un passo classico, ti risucchia magneticamente facendo aderire minuziosamente le parole al loro involucro narrativo, e ti fa venire in mente più Jane Austen che Dacia Maraini. Per questo la Ciabatti non finirà sotto i riflettori dei premietti italiani: oltre a non uscire di casa racconta l'infanzia, l'amore, la famiglia, il potere, molto meglio di tutte le operette sentimentalistiche, familistiche e pseudo-politiche di cui amano parlare i critici per ricamare il solito punto a croce sull'Italia di oggi.
Anche qui c'è l'Italia, intendiamoci, ma non sociologia spacciata per letteratura. Piuttosto un trompe-l'il acquerellato su una commedia malinconica, contemporanea ma senza tempo. Sullo sfondo di una Roma mai così eterna e eternamente decadente, con un tono da favola seria, affilata, in bilico tra felicità impossibili e felicità perdute, mai vissute. Dove ogni cosa, in fondo, più che illuminarsi si corrompe fin da subito: i sentimenti, l'economia, l'infanzia, e dove i rimpianti sono talmente precoci da diventare «la parodia di una giovinezza svanita troppo presto». Come ripensare a «quelle poche volte che aveva vissuto. Pochissime».
Non è un romanzo di una formazione perché la realtà è già sformata in partenza, i sensi di colpa si trasformano in chili (cento tondi tondi), l'adolescenza rabbiosa sogna la liposuzione, e il papà, ricco e potente, gliela regala. Tanto Marta «non aveva nessuna intenzione di fare sport, sennò uno che si opera a fare? No, nessun sacrificio, niente sport, avrebbe fatto una liposuzione all'anno». Una matrioska di feroci vampirismi mascherati sotto apparenze dove anche «l'amore dei genitori non è mai puro. Contiene una proiezione, un egoismo. Qualcosa di mostruoso che si allunga come un'ombra sul figlio».
Insomma, signore mie, qui non ci sono operai di Piombino, non ci sono gli imprenditori di Prato, non si commemora neppure Pasolini, nessuna lagna civile, e alla fine il paradiso deserto della Ciabatti si legge come si guarda un lago d'inverno, e ci dice che il mostro di Loch Ness siamo noi. Dopo aver spettegolato un paio d'ore come due vecchie zie ho posto a Teresa la mia solita domanda inquisitoria: «Non sarai mica cattolica?». E lei: «Macché, sono emo».
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