Controcultura

Come ti faccio a fette maestri, esordienti e premi Nobel

Amato, odiato e moribondo. Così sopravvive un genere storico. Da Giovanni Papini ai critici engagé, fino ad oggi

Come ti faccio a fette maestri, esordienti e premi Nobel

Recensire è un mestiere di alto artigianato. Ma stroncare è un'arte. Occorre: cattiveria travestita da virtù, abnegazione nel leggere fino in fondo un brutto libro, umiltà nell'accettarsi inferiori all'autore giudicato (si recensiscono solo i più grandi), coraggio che confina con la temerarietà (perché farlo?) e inguaribile narcisismo. Si scrive male degli altri così che gli altri - non gli stroncati, ma i lettori della stroncatura - parlino bene di noi.

«Bene o male, purché se ne parli», si dice per difendere un genere giornalistico ormai residuale. Se già la critica è agonizzante, la stroncatura è moribonda. Ma ogni tanto riemerge improvvisa, e carsicamente si inabissa, lungo il corso frastagliato del giornalismo culturale. La sorgente, per il '900 italiano, è Giovanni Papini. Le sue Stroncature, anno di tempeste filosofiche e letterarie 1916, sono ancora citatissime: se la prese con maestri come Benedetto Croce e con autori oggi dimenticati, esempi: Guido Mazzoni e Mario Calderoni. E poi con Renato Serra, Ardengo Soffici, Aldo Palazzeschi, Alfredo Panzini (il quale invece pensava che «La migliore stroncatura è il silenzio») e persino con il mite Emilio Cecchi (che poi si vendicò firmando sul Corriere della sera, nel luglio 1956, un necrologio apparentemente obiettivo, in realtà sottilmente velenoso, del suo stroncatore). Del resto Papini era furente, eccessivo, a volte inutilmente astioso, altre volte sgraziato. E ciò è un rischio. Come scrisse il grande critico Enrico Falqui, «Lo stroncatore si spinge più avanti dello stroncato: si mette in mostra, fa il pavone, dà spettacolo, se ne compiace dichiaratamente». Ma non è la regola. Giuseppe Prezzolini, nella sua storia «tascabile» della letteratura italiana, un'alternanza di lodi e stroncature, è provocatorio, elegante e divertente. Si chiamano maestri.

E gli allievi, alla fine, non sono così tanti. Ci fu Guido Piovene, che osò indire una crociata contro Italo Svevo. Ci fu Giorgio Saviane, scrittore eccentrico e stroncatore crudele. Ci fu Giovanni Arpino, un signore, ma capace di sofisticate cattiverie. Ci fu Giorgio Manganelli, placido e inflessibile. Ci fu Giovanni Raboni, che non riusciva a stare zitto davanti a ciò che leggeva: stroncò classici moderni, come Italo Calvino («Le Lezioni americane? Un modesto saggio divulgativo»), intoccabili come Umberto Eco («Il pendolo di Foucault è un'autentica patacca»), Nobel come Dario Fo («i cui testi sono tutto privi, non dico di valore letterario, ma persino di un'effettiva, autonoma leggibilità...»), bestselleristi come Susanna Tamaro («I suoi libri hanno la consistenza estetica di un Harmony Book»). «Una stroncatura, pur che abbia un minimo di fondamento - disse in un'intervista nel '98 - serve alla buona salute della letteratura cento volte di più, non solo del silenzio, ma anche di un elogio infondato».
Lo credeva anche Enzo Golino. Critico militante ai tempi in cui la definizione aveva un senso, negli anni '80 e '90 su Millelibri mise Sottotiro Tabucchi e Pontiggia, Bufalino e Ceronetti, Cordelli e Vassalli. Quando raccolse in un libro le sue stroncature (definizione: «il classico per eccellenza del dissenso estetico») fu così gentiluomo da chiedere ai bocciati una replica. Tanti accettarono, stando al gioco, altri, offesi, non risposero.

A più d'una furiosa telefonata, invece, dovettero rispondere i piani alti del Sole 24 Ore quando Armando Torno, sul suo inserto della Domenica, affidò una rubrica di stroncature a Roberto Cotroneo, che scelse il nom de plume Mamurio Lancillotto, un vicario criminale nella Milano del '600... Cotroneo-Lancillotto torturava chiunque gli capitasse fra le mani: piccoli, grandi, esordienti, famosi... Stroncò Carmen Llera, Elkann, ma anche Citati, Del Giudice, i quasi intoccabili Fruttero e Lucentini, persino - in un pezzo leggendario - il libro di memorie («pensierini») di Giulio Einaudi. I processi si susseguirono, settimana dopo settimana, dal 1988 al 1989. Poi prevalse la vanità. Cotroneo in un'intervista confessò «Mamurio... c'est moi!» e il fascino della rubrica si dissolse.
Altre, di rubriche, invece resistono post mortem. Sul web, all'indirizzo poetastri.com, sono ancora sfogliabili i pezzi tanto brevi quanto definitivi che Sergio Claudio Perroni, scrittore e editor di fama, suicida l'anno scorso, scriveva sul Foglio e in cui faceva a pezzi poeti, scrittorucoli e - appunto - poetastri, ossia «Quelli che durante l'anno si puntellano recensendosi a vicenda, pubblicandosi a vicenda, prefacendosi a vicenda, incensandosi a vicenda». Una boccata d'aria nel paese dei salamelecchi e dei balocchi editoriali.

Tutte le testate hanno una penna avvelenata. Sul Giornale, primi anni Duemila, sotto un altro pseudonimo - Anonimo lombardo - il critico e italianista Ermanno Paccagnini trapassò velleitari scrittori contemporanei, a partire - pezzo memorabile - da Giorgio Faletti... Nota a margine. Paccagnini nel 1992 firmò sul Sole 24 Ore la più bella stroncatura al romanzo Delitto a Capri di Alain Elkann, perfidamente titolata (citando Delio Tessa?) «L'è mort El-Kan». Ogni stroncatura, del resto, è la morte di qualcuno.
E poi, certo, c'è Cesare Cavalleri, direttore del mensile Studi cattolici. Opera omnia e Opus Dei, è da cinquant'anni che scomunica i giganti: Arbasino e i suoi libri di «panna montata», Nanni Balestrini e la neoavanguardia, Bassani e Ceronetti, e poi i romanzi «inutili, kitsch, pretestuosi e presuntuosi» di Eco, i libri di Giorgio Bocca «stucchevole moralista» e lo «gnosticismo da hard discount» Eugenio Scalfari... Per sopportare così tante e tali pagine da leggere, Cavalleri, a suo modo, è un martire.

Li chiamano Ammazzascrittori. C'è Alfonso Berardinelli, che quando è in forma è il Numero Uno (celebre la sua stroncatura della Storia europea della letteratura italiana «superficiale, scolastica, enfatica» di Asor Rosa, «più che un critico un semplice organizzatore editoriale con ambizioni politiche»). C'è Giulio Ferroni, che fece perdere l'aplomb torinese a Alessandro Baricco dando vita nel 2006 a una celebre querelle letteraria. C'è Massimo Onofri che ha teorizzato la categoria estetica del «sublime basso» (un esempio: Erri De Luca). E c'è Filippo La Porta, che ha svelato le scarse nobiltà e le molte miserie del Nuovo Giallo Italiano. Quattro critici che in un pamphlet collettivo in quel 2006 misero Sul banco dei cattivi Baricco, Tiziano Scarpa e altri scrittori alla moda.
Nello stroncare a volte si seguono le mode, a volte le regole. Una vuole che non si attacchino gli esordienti (anche se, ogni tanto, una sterilizzazione alla nascita male non farebbe). Comunque ci sono le eccezioni. È celebre la stroncatura di Paolo Di Stefano sul Corriere della sera nel 2002 all'opera prima, ma non ultima, di Teresa Ciabatti, Adelmo, torna da me (annunciato come uno straordinario romanzo da Einaudi!). Lo definì il libro più brutto dell'anno. Al primo momento la Ciabatti pianse e urlò. Poi la cosa si rivelò una inaspettata pubblicità. Oggi la stroncata è una scrittrice affermata e firma sullo stesso giornale dello stroncatore. Probabilmente saranno diventati amici e si rituittano lei, lui, la Terranova, la Valerio: «Amore». «Gioia». «Spettacolo!». «Non vedo l'ora che esca il tuo libro». Ma anche no.

Allora, meglio quella volta che Michele Mari, dopo essere stato stroncato da Antonio D'Orrico, si presentò alla sede del Corriere, si fece annunciare, salì, e appena entrato nell'ufficio gli tirò uno schiaffo. O quando Antonio Moresco, bocciato senza appello da Nico Orengo sulla Stampa, rispose con un'articolessa più bella, molto più bella, della bocciatura. Chapeau a entrambi.
Casi di ieri. E oggi? L'ultimo samurai (a proposito: «Nella stroncatura, se praticata con disciplina, c'è una attesa suicidale»), armato di ottime letture e katana letale, è Davide Brullo, firma ispida già del Domenicale, di Libero, del Giornale e de Linkiesta, testata, quest'ultima, da cui è stato allontanato un anno fa, forse proprio per troppe scomode stroncature, e soprattutto nello scivoloso terreno delle quote rosa letterarie, leggi: Terranova, Ciabatti (eddàgli), Veronica Raimo... Comunque - giornalisticamente suicida dato che l'unica cosa che raccoglie firmando pezzi del genere è il livore altrui, un buon carico di nemici, l'invidia degli inetti e l'antipatia degli editori - ora Brullo pubblica in volume una selezione delle sue Stroncature (Gog). Un mausoleo del «peggio della letteratura italiana (o quasi)» che accoglie tutti gli scrittori da classifica, come Valeria Parrella, Carofiglio, Marco Missiroli, Paolo Di Paolo, Alessandro D'Avenia (il quale minacciò querela, e infatti il pezzo su di lui è stato tolto da Linkiesta.it) e santoni vari: Augias, Beppe Severgnini, Michele Serra, la Murgia (olè!). Tra le stoccate si segnalano: il pezzo geniale su Elena Ferrante (libri ottimi, «per teleutenti Rai»), la stroncatura in versi della coppia poetica Marco Rossari&Veronica Raimo, e - ottima ultima - l'auto flagellazione «Davide Brullo stronca Davide Brullo».

Forse, tenuto conto che quando recensisci un libro non devi guardare in faccia all'autore, chiunque sia, il suo pezzo migliore.

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