La Storia della civiltà africana di Leo Frobenius (Adelphi, pagg. 480, euro 35) è lo splendido relitto di un tempo che fu, l'Europa novecentesca del primo quarto di secolo, con le sue morfologie, le ascese e cadute delle civiltà, i libri per tutti e per nessuno, la crisi dei valori e le rifondazioni filosofiche, i romanzi epocali e fluviali, la Kultur, i suoi riti, i suoi adepti... Cominciò ad andare tutto a fuoco nel grande incendio della Prima guerra mondiale, e dopo quello appiccato con la Seconda non rimase altro che cenere, paura e vergogna, come se il fuoco della conoscenza rubato da Prometeo avesse bruciato l'idea stessa di conoscenza e con essa le fondamenta del vivere civile trasformatesi in visioni del mondo contrapposte e votate all'annientamento reciproco.
Frobenius (1873-1938) aveva questo cognome latino su un corpo e un'anima tedesche che dalla latinità erano passate quasi senza accorgersene alla arianità, uno slittamento che dal mondo classico faceva sorgere nuovi barbarici splendori e spazi vitali e diritti superiori. Aveva viaggiato, Frobenius, lungo quel continente nero di cui appena un ventennio prima era stata completata la mappatura e la definitiva quanto illusoria colonizzazione. Aveva cominciato ai tempi di una Germania guglielmina intenta a reclamare il suo diritto fra le grandi potenze, il suo ultimo viaggio era conciso con l'entrata in scena e in patria di un Führer deciso a riscattare l'umiliazione e la sconfitta del Kaiser che lo aveva preceduto e aveva perso tutto: l'impero e le colonie, lo status e l'onore. In Africa Frobenius era andato a cercare la Ergriffenheit, la commozione, il sentire e il creare che precede l'esprimere e il rappresentare, proprio quello che l'Europa positivista di fine Ottocento aveva perso, accontentandosi di una concezione del mondo «simile a un orario ferroviario o a un listino di borsa. Il credere nel dato di fatto era una professione di fede».
Per un incredibile paradosso della storia, cercando la «commozione» come fondamento di ogni civiltà in quell'Africa a cui l'uomo bianco negava il concetto stesso di civiltà, non si accorse che essa intanto, mutata e corrotta, aveva ripreso a pulsare nel cuore stesso del Vecchio continente, le ragioni del sangue e del suolo, l'idea che si fa azione e non ha più bisogno di parole per esprimersi, il sentimento che scaccia il ragionamento, l'ideologia in forma di fede... L'Africa era in Europa, ma Frobenius non fece in tempo a vederla perché morì prima che la trasmutazione arrivasse al suo grado limite e distruggesse tutto ciò che c'era intorno.
Così, la Storia della civiltà africana (uscita nel 1933) appare oggi come aver visto l'altra faccia, ma della stessa luna occidentale da cui Frobenius era partito. Lì c'era l'origine, il primigenio, il candore e lo stupore, il rito, il mito, la magia, di cui qui, invece, si era perso lo stampo, l'alba al posto del tramonto da cui, studiando e viaggiando, era fuggito. E naturalmente c'era la natura-natura, quello che l'uomo faustiano della natura-cultura aveva addomesticato e corrotto, sfruttato e offeso, e con cui invece l'uomo africano ancora comunicava, un universo panico fatto di segnali comprensibili proprio perché istintivamente fatti propri, non legati al fatto, ma all'essenza.
Erudito, dotto, sapiente, Frobenius incarnava quello spirito tedesco che da Hegel a Spengler, passando per Mommsen e Gregorovius, rappresentava il meglio e il peggio del suo genio, l'applicazione e l'astrazione, le teorie generali e la ciclicità, la pesantezza e la pedanteria elevate ad altissime forme del sapere. Ma in mezzo a tutto ciò c'era stato Nietzsche e Frobenius ne era per certi aspetti un prodotto, non filosofico, ma umano: le grandi sfide, la volontà di potenza, l'attività febbrile del filosofo-filologo-etnologo che danza sulla corda tesa in cerca di ciò che la semplice ragione, umana, troppo umana, non può dargli. Anche il viaggiare era nicciano, l'idea che si tagliano i ponti, si mollano gli ormeggi e «al di là si aprono aurore mai viste».
Dal Sudan al Congo, dalla Guinea al Kalahari, dal Fezzan al Capo, per un ventennio Frobenius viaggia, cataloga, incontra, ascolta: reperti archeologici e oggetti di culto, riproduzioni di pitture rupestri, fiabe e leggende, canti e regole, sacralità sempre e comunque. Più si immerge nello spirito africano (usanze, strutture sociali, credenze, manufatti), più si accorge che esse possiedono un significato che va oltre i confini in cui è racchiuso. Sono le immagini a guidarlo e i raffronti che quelle stesse immagini a intervalli di secoli, al di là dei mari, permettono. Il felino in posizione frontale è qui come nelle caverne dell'età della pietra in Francia, le mura delle pitture rituali dell'Atlantide sahariano e del Fezzan richiamano Micene e l'Asia minore. Piante, animali, cacciatori e pastori, soli e lune, cielo e terra, case rotonde e case quadrate raccontano ovunque il pensiero umano, sono la grande narrazione dell'umanità. Qui come altrove, atteggiamento magico e atteggiamento manistico si fanno concorrenza: il primo «pensa, immagina la realtà e così essa nella sua mente diventa spirito o spettro», il secondo «sente, vive la realtà e così essa diviene essenziale per la sua anima».
Storia della civiltà africana è un titolo ambiguo. Più che storico, l'assunto di base è un'ispirazione estetica, lirica: vedute d'insieme e non date o cronologie di popoli, principi di una nuova scienza delle civiltà e abbandono dei vecchi e arbitrari confini fra la preistoria e la storia e la cultura di un continente.
C'è spesso un che di oracolare e confuso, ancor più evidente nel suo emergere fra metodi verticali-temporali della scienza storica e metodi orizzontali-spaziali dell'etnologia, sfere culturali, etcetera. L'insieme è farraginoso nella sua imponenza, quanto affascinante per le ambizioni che contiene. L'idea dell'Africa di Frobenius è un impossibile, irresistibile ritorno alle origini, l'eterno mondo nuovo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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