A Possagno, lì dove la pianura vola verso la montagna, si aduna la più incredibile popolazione di figure. Vegliano sul grandioso Tempio che incornicia l'abitato, sulla modesta casa che diede i natali al loro creatore. La strada che collega quest'ultima, e l'annesso museo, all'edificio sacro è in realtà, come scrisse Fred Licht, un'asse fra due templi: «Da una parte la chiesa cristiana, simbolo della fede da tempo in declino; dall'altra la gipsoteca, nel cuore stesso del paese, sacrario del culto in ascesa dell'arte». Visti nel loro insieme, tutti quei gessi originali che servirono come modelli dei successivi marmi, formano un'entità nuova, logica e comprensibile, rappresentano un vero e proprio allestimento della storia dell'arte, presentano gli elementi necessari a comprendere un artista moderno. Il più classico dei neoclassici fu anche il più moderno nell'intuire che il destino delle sue sculture stava nel loro legame intimo e non, come in passato, nel contesto pubblico. Il museo Rodin, il museo Thorvaldsen, il museo Brancusi vengono da lì, da quella intuizione. È a Antonio Canova che sono debitori.
Canova è presente, come forse nessun altro artista, in tutti i più grandi musei del mondo, dal Louvre all'Ermitage, dal Metropolitan ai Musei Vaticani, alla Nationalgalerie di Berlino, ma la duplice Gipsoteca di Possagno, l'antica, ottocentesca, del Lazzari, la moderna, novecentesca, di Scarpa, è un vero e proprio Olimpo della scultura: c'è il sacro, il profano, il familiare, immersi nello spazio e nella luce. Fuori, il pino italico che egli stesso piantò nel 1799 ancora regala al visitatore la sua ombra in questa estate così calda.
A ridosso della Pedemontana del Grappa, in un pugno di chilometri c'è il riassunto di un millennio di evoluzione artistica. Villa Emo e Villa di Maser del Palladio con gli affreschi del Veronese, il Barco della regina Cornaro ad Altivole, la torre del Castello degli Ezzelini a San Zenone, il Giorgione del Duomo di Castel Franco Veneto... Sulla sommità del monte, il Monumento ai caduti fa da sentinella alla genialità italiana.
La Prima guerra mondiale non risparmiò Possagno. Nel dicembre del 1917, l'inverno più tragico del conflitto, una trentina di bombe austriache mandarono in frantumi molti di quei gessi. Antonio Canova. L'arte mutilata nella Grande guerra è la mostra, curata da Alberto Prandi e Mario Guderzo, direttore scientifico del museo e della gipsoteca, che ora racconta (fino al 28 febbraio) quella «ferita», esponendo le fotografie, un centinaio, che al tempo Stefano Serafin scattò di quei tragici, magnifici resti, e i gessi, non tutti restaurati: i busti di Dirce e della musa Polimnia, quello di Napoleone, la coppia Venere e Marte, a illustrazione di una bellezza sfregiata... Più o meno in contemporanea, sempre sotto la direzione di Guderzo, Aosta ospita Antonio Canova. All'origine del mito , dove gessi, terrecotte, schizzi autografi, tempere e dipinti a olio vengono accostati ai marmi per meglio documentare il processo creativo, l'ideale estetico di una sottile bellezza filtrata dall'intelletto.
È insomma un'estate all'insegna di Canova, e a mezzo secolo di distanza gli sferzanti giudizi di principi della critica come Roberto Longhi («lo scultore nato morto») e Cesare Brandi («un burocrate dell'arte») ricadono sulla testa di chi li pronunciò, feticci di un dozzinale romanticismo come simbolo di genuina immediatezza, arte pura primigenia, su cui Mario Praz ironizzerà da par suo in Gusto neoclassico : «Pare che colui che copia dai Musei Vaticani uccida “lo slancio meraviglioso verso l'ignoto della fantasia”, mentre colui che copia dalle grotte di Altamira e di Lascaux “realizzi appieno l'autonomia dell'arte”. L'arte ellenistica è per lui una fonte impura, l'arte mesolitica, l'arte schematica, sono fonti purissime».
Va da sé che Canova non copiava, ma imitava, come nota Beatrice Buscaroli nel catalogo che accompagna All'origine del mito : «Imitare la perfezione classica significa aderire a una sorta di monito morale dove la riproposizione di quei temi non impedisce né il confronto con le forme naturali né l'esplicitazione della creatività, dell' ingenium dell'artista». Imitare vuol dire tradurre il classico. Che si trattasse di una traduzione viva e non di una opaca copiatura, ne dà testimonianza l'emozione di un Flaubert allorché, viaggiando in Italia, vede il gruppo di Amore e Psiche : «Non ho osservato niente del resto della galleria; sono tornato a più riprese solo a questa statua e l'ultima volta ho abbracciato sotto l'ascella la donna riversa che tende ad Amore le sue lunghe braccia marmoree. E il piede! E la testa! E il profilo! Che io sia perdonato. Fu il primo bacio sensuale da lungo tempo; fu anche qualcosa di più; io abbracciavo la bellezza stessa, era al genio che rivolgevo il mio appassionato entusiasmo». Un secolo dopo, al sanguigno Flaubert farà eco il delicato “rondista” Antonio Baldini del delizioso Paolina fatti in là , scaturito da una visita alla Galleria Borghese: «E se tenevo chiusi gli occhi e salivo con le mani non c'era parte del braccio che sotto le mie dita non rispondesse come vera carne. E quando le passai le mani sul capo, i riccioli mi piovevano fra le dita dalla nuca rotonda. Quale divino e diabolico artista fu mai Canova!».
Nel quadro di Francesco Chiarottini, Lo studio di Antonio Canova a Roma, oggi al Museo civico di Udine, è racchiuso l'universo artistico di questo artista d'eccezione. Il modello in gesso e le sculture di marmo non ancora finite collocate sotto un telaio di legno alla francese, due collaboratori alle prese con un trapano a corda, altri due con le rifiniture, due pantografi appoggiati sul basamento in gesso dell' Umiltà , le figure in marmo dell' Umiltà e della Temperanza collocate in fondo alla parete centrale. Un paio di garzoni sbozzano marmi al centro dello studio, due visitatori osservano quell'alveare all'opera... A Roma, al civico 27 di via delle Colonnette, quello studio esiste ancora, porte e finestre centinate, l'edificio caratterizzato da frammenti di statue, architravi e sculture di Roma antica, una vera e propria “officina statuaria” eretta per aggregazione della serie originaria di casupole di proprietà ecclesiastica. Un busto bronzeo, eseguito da Giuseppe Guastalla, sul modello dell'autoritratto canoviano, sovrasta la targa che nel 1917, l'anno dello sfregio bellico di Possagno, fece affiggere l'Unione degli Artisti, lì «dove rifulse il genio di Canova». Era, quella canoviana, una Roma traboccante di ruinae , parti integranti del suo panorama, centro del mercato di antichità e insieme tappa obbligata di collezionisti e di adepti del Grand Tour, luogo deputato di quel «culto dell'antico», cerniera di quella sintesi tra l' ingenium e l' ars delle tecniche che Canova compiutamente incarnò, lui che, come scrisse Jacques-Louis David, «aveva fatto per i posteri tutto quello che può fare un mortale».
Eppure, è qui a Possagno che si respira la sua venezianità, un tratto distintivo di eleganza, una sensualità casta ma capace di erotismo.
Passando dal Porticato al Cortiletto del pozzo, la Scuderia e il Giardino del Brolo si accede al parco con i suoi quattro campi chiamati “persei” perché acquistati da Canova con i tremila zecchini della statua del Perseo. Tutto è lusso, calma, voluttà.
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