di Nicola Crocetti
Nella terra che brucia le ossa
non avrò freddo, non amerò più:
odo ragazzi sulla riva dire
di placidi suicidi, di stanchezza.
Ma nella quiete che non ha parole
ogni plauso ogni grido tacerà:
in un angolo si perderà l'amore
che lungamente ti ho portato in vita.
Nella memoria le cose non saranno
che ombre senza più forma o virtù
e taceranno i soliti lamenti
che in lungo buio la mia bocca apriva,
in questo infine spenti sordamente.
Chi lo conobbe, descrive Giuseppe Piccoli come una persona mite, timida, cortese. Il poeta veronese Arnaldo Èderle, che gli fu compagno di studi e amico, ne ricorda l'inusuale generosità e la «figura sottile, dai tratti finissimi, dalle maniere più gentili». Eppure questo giovane sensibile e istruito, figlio di un professore di latino e greco e di un'insegnante di musica, amante dell'arte, poeta, nel 1981, poco più che trentenne, in un attacco di schizofrenia ferisce con un coltello da cucina la madre e il padre, che muore pochi giorni dopo. Recluso nell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia per dieci anni, viene poi trasferito in altri istituti, infine in quello di Aversa. Ma le ferite con cui aveva tentato di regolare i conflitti con i genitori sono anche lacerazioni inferte a se stesso, e non si rimarginano: nel 1987, a 38 anni, si toglie la vita.
L'emarginazione dovuta alla sua vicenda personale si ripercuote sulla sua poesia, e rende difficile il suo riconoscimento artistico. Perché Giuseppe Piccoli è un ottimo poeta, uno dei migliori della sua generazione. E nonostante l'interessamento di rari amici (lo stesso Èderle, Maurizio Cucchi), la sua ricca produzione di versi (dieci volumi; il primo, Il padre pazzo, del '71) è ancora pochissimo nota. Tenta di porvi rimedio l'antologia Fratello poeta, curata dalla studiosa Maria Piccoli, e pubblicata da LietoColle.
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