Si può scrivere la biografia di una città, anamnesi medica e profilo psicologico? Un critico inglese, Peter Ackroyd, cui si debbono ben costruite vite di scrittori, da Shakespeare a Wilde, ci ha provato e il risultato è questa monumentale Londra (Neri Pozza, pagg. 622, euro 22; trad. Luca Cafiero). Quello che viene fuori è l'immagine di una metropoli vista come un labirinto di pietra e di carne, organismo vivente e vorace, insaziabile nel suo ingoiare tutto e tutti, cibo, merci, idee, persone. Un corpo dal cuore palpitante scosso da febbri ricorrenti che si chiamano epidemie, incendi, sommosse, un'esistenza plurisecolare contrassegnata da cadute e risurrezioni, decadenze palpabili e trionfi impressionanti, una bulimia di grandezza che assorbe tutto ciò che incontra intorno a sé.
Pur nella diversità data dai secoli, dalle dimensioni, dal ruolo stesso avuto via via da Londra, alcuni elementi rimangono costanti e si impongono come fossero dei veri e propri tratti somatici, una sorta di identikit. Il primo è la sporcizia, il «più lorda che Londra» della definizione di un prelato veneziano del XVII secolo. Ancora a metà '800, secondo la Quarterly Review, non c'era uomo o donna «i cui abiti, pelle e narici, non fossero più o meno ricoperti di un misto di polvere, granito, fuliggine e sostanze ancora più disgustose». Una scrittrice contemporanea, Iris Murdoch, a proposito del protagonista del suo romanzo The Black Prince dice che poteva sentire «la densa sporcizia e il sudiciume di Londra sotto i piedi, sotto il sedere, dietro la schiena». È la sporcizia di una città votata al commercio, all'accumulazione e alla successiva eliminazione senza andare troppo per il sottile, in una coazione a ripetere che non trova mai il tempo per fermarsi, per riflettere, per progettare e che alla fine nasconde, occulta, si trincea... Parlando della Londra vittoriana, Ackroyd vede il mondo esterno «schermato in quelle abitazioni da pesanti tendaggi, attutito dalle tappezzerie, respinto da ottomane, sofà e tavolinetti, ingannato da frutti di cera, l'oscurità metaforica e reale di Londra dissipata da lampade e candelieri». Un secolo dopo quella sensazione permane e l'opacità delle abitazioni fa da contrasto con la lucentezza dei negozi di design, la geometria delle boutique di moda.
Il secondo tratto distintivo che emerge da questo identikit è la violenza, una sorta di tensione profonda, che spesso e volentieri esplode, di nervosità latente che spesso e volentieri ritorna in superficie, di darwinismo sociale che spesso e volentieri maschera una voglia di sopraffazione. Arena della «lotta per la vita» e della «battaglia della vita», Londra presenta nei secoli un combinato disposto di rabbia e rissa, provocazione e scontro, rischio e scommessa. Agli inizi dell'800, il principe Herman Puckler-Muskau notò un bambino di otto anni che guidava il proprio carretto in mezzo a un traffico caotico di carrozze e commentò: «Una cosa del genere si può vedere solo in Inghilterra, dove i bambini sono indipendenti a otto anni e impiccati a dodici». Un secolo prima un viaggiatore notava come la prima parola che salutasse l'arrivo di uno straniero in città fosse Damn it, dannazione, accidenti. A inizio '900 sarà bloody, ovvero maledetto, e ai giorni nostri è fucking...
È una violenza verbale, fisica e, come dire, simbolica. Per secoli uno dei simboli di Londra fu il carcere di Newgate. Sempre allo stesso posto fin dal 1100, da subito emblema di morte e di sofferenza, luogo leggendario dove le pietre stesse erano considerate mortifere, luogo di ispirazione come nessun altro per poesie, drammi, romanzi. Sinonimo di inferno, il suo odore permeava le strade e le case attorno. Giacomo Casanova, che ne assaggiò «l'ospitalità» per un breve periodo, lo descrisse come «una dimora di disperazione e sofferenza quale avrebbe potuto immaginare Dante». Demolito all'inizio del '900, nel Museo di Londra i visitatori possono ancora oggi vedere due delle grandi porte che lo connaturavano e il palo delle fustigazioni dei «pazienti». A lungo Londra ha avuto più prigioni che ogni altra città europea e una ballata seicentesca recitava: «In un miglio di Londra/ diciotto galere o prigioni/ e sessanta fra pali di frusta e gabbioni...». Il memorabile saggio di De Quincey L'assassinio come una delle belle arti è ispirato ai delitti della Radcliffe Highway, sette raccapriccianti omicidi in otto giorni.
La violenza, naturalmente, non è un qualcosa legato strettamente alla criminalità, alla devianza: ha a che fare con pulsioni che hanno le loro radici in una visione della vita come sfida, in un'ansia di superamento, in una insofferenza verso vincoli, legami, regole, in una precarietà sentita come condizione essenziale per ogni desiderio di cambiamento.
Se si dovesse scegliere un colore emblematico per accompagnare questi due tratti caratteristici della biografia londinese, la sporcizia e la violenza, Ackroyd non avrebbe alcun dubbio nello scegliere il rosso. «Le carrozze del primo Ottocento erano rosse. Le buche delle lettere sono rosse. Lo erano, fino a poco tempo fa, le cabine del telefono. Gli autobus sono tuttora caratteristicamente rossi. I treni della metropolitana lo erano un tempo. Rosse apparivano le tegole della Londra romana. Le mura originarie erano di arenaria rossa. Lo stesso Ponte di Londra era ritenuto permeato di rosso, macchiato dal sangue di fanciulli come parte dell'antico rituale di costruzione. I grandi capitalisti di Londra - la gilda dei commercianti di tessuti - indossavano livree rosse, i veterani del Chelsea Hospital portano ancora uniformi rosse. Rosso stava pure per oro nello slang cockney. I lavoratori fluviali, che appoggiarono le bande che dilagarono per le strade nella primavera del 1768, inventarono la bandiera rossa come segno di un radicale malcontento».
Di là dal suo abbinarsi perfettamente con la raffigurazione della violenza da un lato, con la sua esaltazione, potremmo dire, e dall'altro con quella realtà occultata della sporcizia, il rosso stinto delle sdrucite moquettes dei teatri e degli alberghi, l'idea di una tintura brillante come antidoto alla opacità, il rosso si addice a Londra perché le è connaturale e la contraddistingue. Nell'osservare le fiamme sprigionatesi dal Grande Incendio del 1666, il filosofo John Locke scrisse che producevano «raggi di luce di uno strano rosso». Fra fine '700 e primi '900 andarono a fuoco 37 teatri. Dal parlamento al Ponte di Londra, non c'è istituzione cittadina che non sia stata distrutta dalle fiamme e ricostruita. Il sole che, come una palla di fuoco, tramonta dietro Westminster resta un classico della pittura di Turner, Whistler, Monet...
Nello scrivere con passione e puntiglio la biografia della città, Ackroyd la presenta per quella che è: non particolarmente bella, non particolarmente emozionante, senza monumenti che la possano far paragonare a altre capitali, senza un edonismo del vivere che a altre capitali la faccia preferire. E tuttavia il ritratto che consegna è quello di una città dotata di un fascino strano, animalesco eppure gradevole, moderno eppure antico, anarchico eppure con elementi fissi di ordine, pena altrimenti il collasso, libertaria nella sua più assoluta accettazione delle diversità e delle libertà individuali.
Una città in continua, perenne metamorfosi, legata alla propria storia quanto più quella storia è scomparsa. Una Cartagine che riuscì a credersi Roma e che ancora oggi si illude di essere il centro di un impero che non esiste più...- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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