Vita privata e pubblici successi di Valentino Bompiani

Che cos’è un editore? Valentino Bompiani (1898-1992) si pose questa domanda che aveva da poco compiuto i trent’anni e preso la decisione di mettersi in proprio. Editorialmente parlando era andato a scuola da Arnoldo Mondadori, segretario prima, poi segretario generale: in quel campo era come andare a studiare alla Normale di Pisa pur restando a Verona. “Mondadori era “inafferrabile”, “indifferente alle idee astratte”, scaltro sì, “ma con una specie di candore che lo salvava”, ingombrante, feroce e divoratore”, “un pugile generoso che abbraccia l’avversario prima e dopo il combattimento. E anche durante”. Negli anni Trenta, quando Giuseppe Ungaretti era tornato dal Brasile, tutti gli editori avevano fatto a gara per accaparrarselo. Mondadori si era fatto fare un corso accelerato sulla sua vita, su ciò che aveva scritto. “Caro Maestro, mi illumino di immenso” gli aveva detto al loro primo incontro, per poi farlo entrare nel suo studio. Dopo una mezz’ora Ungaretti era uscito mormorando: “Sa a memoria tutte le mie poesie” e per gli altri editori non c’era stato più niente da fare.

Bompiani ammirava Mondadori, ma era di un’altra pasta, per gusti, per tradizioni, per educazione. Era figlio di militari, ultimo di cinque fratelli. Quello di mezzo, Mario, era morto suicida a diciassette anni, dopo che un incidente, tirando di fioretto, lo aveva reso invalido in tutto il lato sinistro del corpo. Si era ucciso nella sua camera, conficcandosi nel cuore un coltello da dolce, mentre madre fratelli lo attendevano a tavola.

Nella casa di famiglia in via Belsiana, a Roma, a ogni piano c’era un Bompiani, le sorelle e i fratelli del padre, e i loro figli garantivano un cospicuo numero di cugini e di cugine. La Grande guerra si portò via i due fratelli più grandi di Valentino, caduti al fronte: “Avevo sedici anni. La mia infanzia era finita. Mi avvedo che era piena di morti, in un doloroso disordine, tra i quali mammà si muove portandoci la merenda”. Si sarebbe sempre portato dietro la nostalgia di casa, una casa astratta, ma affollata, dove a dare “un peso diverso alle parole” c’era un passato sempre presente “perché vissuto insieme”. Ecco, una delle risposte a quella domanda dalla quale siamo partiti è proprio questa. “Vorrei vivere in una casa comune con tutti quelli che amo. Forse è per questo che ho fatto l’editore”.

E’ sufficiente? Naturalmente no, ma Bompiani sapeva come ulteriormente articolarla. Lasciata la Mondadori era andato a dirigere la Unitas, che aveva gli uffici a Milano, in Galleria Vittorio Emanuele. Durò pochi mesi. I proprietari, due imprenditori ticinesi, volevano stampare una parodia dei Promessi sposi scritta da Guido Da Verona. Gli avevano già dato un anticipo sui diritti, per una tiratura di 25mila copie…Da Verona era l’esatto contrario dell’idealtipo di Bompiani. Non aveva, per smussarne i lati più indigesti, la grandezza di d’Annunzio, tutt’al più i suoi levrieri. Nell’antipatia istintiva nei suoi confronti, il fatto che fosse uno scrittore popolare e alla moda contava sino a un certo punto. Bompiani non si riteneva un editore elitario, anche se il primo libro che aveva voluto per la Unitas era una traduzione in versi dell’Onegin di Puskin a opera di Ettore Lo Gatto. No, niente di tutto questo, era semplicemente Da Verona in quanto tale, unito alla consapevolezza che gli eredi Manzoni non sarebbero rimasti a guardare. Per farla breve, Bompiani venne licenziato, impugnò il licenziamento e vinse in tribunale, la Unitas stampò la parodia dei Promessi sposi, se la vide sequestrare e dovette pagare i danni, andò in liquidazione e chiuse i battenti. Con i soldi ottenuti grazie alla sentenza, Bompiani fondò la sua Valentino Bompiani Editore, in una mansarda di via Durini. Che cos’è un editore? “I libri li scrive qualcuno che non è lui. Li stampa, normalmente, un altro, che non è lui. Li vedrà un terzo, che non è lui. Di suo, di sé stesso, l’editore ci mette l’amore. Questo sentimento accompagna l’editore nelle sue giornate, lo guida nelle scelte, lo distingue e lo sostiene. Dietro ogni libro c’è una somma di azioni, di pensieri, di inquietudini, di decisioni, di angustie, di speranze condivise con altri(…). Tutto questo, ogni volta, illude e consola”.

Insieme con Leo Longanesi, Valentino Bompiani è stato l’editore più colto dell’Italia fra le due guerre e poi della ricostruzione e del boom sino agli anni Sessanta. A confermarcelo ancor più, è questo Via privata, che ora Ronzani ripubblica (310 pagine, 18 euro), primo volume di una trilogia autobiografica pubblicata dopo aver venduto la casa editrice che aveva fondato, quasi che, non avendo più scrittori a cui far scrivere libri, avesse deciso che fosse giunto il tempo per scriverli al loro posto…Il nome di Longanesi non è fatto a caso: anche Bompiani dipingeva, aveva una vena di drammaturgo che all’altro mancava, provenivano e/o ritornavano a una borghesia idealizzata ma di cui comunque avevano entrambi avvertito i contorni. Per il resto, erano diversissimi: “Longanesi sembra uno che ha ereditato da un lontano parente, con la cravatta scura, ma nuova. Non se l’aspettava, però è stato pronto al funerale”. Il lontano parente, e il relativo funerale, era stato il fascismo, in cui Longanesi aveva creduto, poi aveva smesso di credere, poi aveva fatto finta di credere, poi si era stancato di dover fare finta, restandone però sempre e comunque a volte orfano, a volte vedovo…

Per Bompiani il fascismo era stato un’altra cosa, un’imposizione più accettata che subita, un’identificazione nel nome della nazione più patriotticamente recepita che intellettualmente motivata, un senso di estraneità, se non di rifiuto esistenziale, “frondista” se si vuole, ma senza mai divenire scoperta ribellione. Nasce anche da qui un senso come di espiazione, e quasi di colpa: “Usciremo da una guerra che non ci è appartenuta, pazienti fino alla rinuncia, ostinati fino alla violenza. Di nostro, dopo cinque anni, non ci resteranno che i morti. Dopo qualche vendetta, la pace assumerà per i più l’aspetto di uno sgombero (…) aspettando l’America o la Russia come si aspetta un imbianchino”.

Era un umanista malinconico Bompiani, che trovava nel fare e nel progettare la chiave per uscire da quell’Arcadia colta e sterile che era un po’ l’emblema dell’Italia intellettuale, eternamente intenta a guardare il proprio ombelico, e che più detestava.

Non per nulla aveva messo come epigrafe di questa Via privata quel brano del Don Chisciotte in cui Sancho Panza piangendo carcava di tenere in vita il suo padrone: “La maggior pazzia che possa fare un uomo in questa vita è di lasciarsi morire così, senza rimedio, senza che nessun lo ammazzi, Né che altre mani lo uccidano che quella della malinconia”.

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