Cultura e Spettacoli

La vita "segreta" di Lucrezia Borgia tra bufale e luoghi comuni

Un libro di Maria Paola Zanoboni sulle donne al lavoro nel Medioevo rivede i luoghi comuni sul ruolo femminile nella società dell'epoca

La vita "segreta" di Lucrezia Borgia tra bufale e luoghi comuni

Quanti luoghi comuni. Non è vero che nel Medioevo le donne lavorassero solo in casa o, al massimo, nella tessitura. Non è vero che la loro qualità professionale godesse di scarsa considerazione, che non avessero accesso alle corporazioni o che non esercitassero ruoli da imprenditore. Maria Paola Zanoboni, studiosa di storia medievale e autrice di alcuni saggi sulle attività economiche dell'epoca, rimette le cose a posto con un testo che ha valore scientifico e linguaggio divulgativo (cioè, insieme, serio e piacevole da leggere): “Donne al lavoro nell'Italia e nell'Europa dal Duecento al Quattrocento” (Jouvence Historica, 180 pagine, 16 euro, ricco di vastissima bibliografia). Si tende a pensare che in quei secoli le donne non fossero impegnate in lavori pesanti: eppure, per esempio, i documenti relativi allo scavo di una roggia nella zona di Pavia, a metà del XV secolo, dicono che dei 600 lavoratori ingaggiati, solo 300 erano uomini. Anche in Francia e in Spagna nella stessa epoca, tante donne erano occupate nell'edilizia, nelle costruzioni di edifici privati e di opere pubbliche, con una particolarità: se avevano la stessa corporatura di un uomo venivano pagate per intero, altrimenti la metà. Ciò avveniva anche in altri mestieri di fatica: stesso rendimento, paga uguale. Con qualche eccezione: nei rivestimenti interni in pelle delle armature, le mani femminili erano più abili e venivano pagate di più.

A Parigi, nel Duecento, le mogli dovevano alternarsi ai mariti nella custodia delle porte delle città, anche di notte. Sempre in Francia, nelle saline di Salins, nello Jura, le donne non erano solo manovali ma avevano anche compiti di coordinamento e di gestione. In quelle miniere di sale si viveva di più: c'è traccia di una donna invecchiata sottoterra fino a 112 anni, molte a 80 lavoravano ancora. E dopo quarant'anni di lavoro acquisivano il diritto alla pensione, pagata dal datore di lavoro: raro caso di welfare dell'epoca; altri esempi si trovano a Venezia, dove la Zecca dello Stato nel Trecento pagava un assegno d'invalidità ai dipendenti malati o ciechi per causa di servizio.

Un altro luogo comune rivisto dagli studi della Zanoboni riguarda le nobildonne: si pensa che facesso una vita agiata e oziosa, invece molte si dedicavano a svariate attività, a cominciare dai laboratori di ricamo. Di Lucrezia Borgia, di cui tante cose si sanno, forse s'ignora che fosse un'abilissima imprenditrice. Si occupò di bonifiche di terreni, specie nel Ferrarese, facendosi pagare con parte dei campi valorizzati, grazie ai quali aumentò il patrimonio di famiglia. All'inizio del Cinquecento avviò persino un allevamento di bufale e impiantò una produzione di mozzarella, di cui era ghiotta. Tale Cristofora Margani ereditò dal marito le miniere di allume di Tolfa, presso Civitavecchia, particolarmente importanti dopo la caduta di Costantinopoli; l'allume serviva in molte lavorazioni, nel fissaggio dei colori ai tessuti, nell'industria del vetro e nella concia delle pelli. La vedova diresse con polso fermo l'attività, trattando da vera imprenditrice sia coi clienti che coi minatori.

Tanti i casi di lavoro autonomo femminile anche in campi più artigianali, per esempio nella produzione di “oro filato”, un filo di seta avvolto in una foglia d'oro usato per impreziosire gli abiti. Le “mercantesse” di oro filato a Venezia furono anche riconosciute dal senato.

Maria Paola Zanoboni rivede anche un'altra convinzione diffusa: che le donne non fossero ammesse nelle corporazioni. Secondo i documenti rintracciati dall'autrice, erano in realtà le donne a non volervi entrare per organizzarsi da sole e per non essere controllate; ciò in Italia, in Spagna, in Francia. In tutta Europa ci furono anche donne medico, in particolare a Firenze, e anche in questo ambito si registrarono vari contenziosi con le corporazioni. A Parigi fu processata una donna-medico, considerata abusiva dalla corporazione che essa aveva rifiutato: a difenderla furono, in massa, i suoi pazienti. L'iscrizione alle corporazioni era obbligatoria per gli uomini, per le donne veniva tollerato il lavoro nero, purchè non dessero fastidio. Piuttosto nel tempo si fece strada un principio: in attività delicate – beni preziosi, produzione del pane, medicina – l'iscrizione alla corporazione diventò una specie di certificazione, quasi un'abilitazione all'esercizio. Ma – sottolinea la Zanoboni – non è vero che le donne fossero volutamente escluse, considerate negativamente, impiegate in attività marginali e mal pagate.

Ci furono casi anche di donne capaci di maneggiare il denaro a tal punto da svolgere attività finanziarie, così come la solidarietà tra donne lavoratrici registrò casi clamorosi. Divertente ciò che avvenne a Bilbao nel XIV secolo. Nella piazza del municipio veniva allestito ogni giorno il mercato di sardine e di pesce salato, e tutti i banchi erano tenuti da donne. Il palazzo del Comune, dove si svolgevano le riunioni della politica cittadina, veniva invaso da una puzza insopportabile, al punto che gli amministratori decisero di spostare altrove quell'attività maleodorante. Le donne, una ventina, si coalizzarono e rifiutarono tenacemente il trasloco, difendendo un luogo che consideravano proprio. Ci fu un lungo braccio di ferro, risolto alla fine con un compromesso: nella stessa piazza fu costruito un apposito portico, grazie al quale la puzza di pesce veniva attenuata.

Le donne la spuntarono sull'autorità.

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