Vittorie e sconfitte di Sant'Antonio, che combattè contro il maligno

Ma chi è un genio, cosa lo distingue dal resto degli uomini, quali sono i suoi segni caratteristici? Non è una domanda fuori posto e magari fuori tempo. La nostra, sì, è un'epoca fondata sulla mediocrità universale, e la tecnica e il denaro, la democrazia e la società di massa e soprattutto i loro derivati tossici, sono la negazione del genio. Al suo posto conta l'abilità, il calcolo, la furbizia, al più il talento, ma la genialità è vista come un'anomalia imperdonabile. Però, dall'altra parte, serpeggia l'illusione di una genialità di massa, attraverso l'uso estroso della trasgressione: si ritiene che la sregolatezza decreti il genio. È il frutto estremo di quell'onda lunga chiamata '68: la creatività diffusa, la fantasia al potere, la vita come capriccio e stravaganza. C'è oggi uno spreco di aggettivi esagerati, e geniale è tra i più abusati. Dunque la nostra epoca disprezza il genio, ma è popolata di geni estemporanei per autoacclamazione o per decreto esagerato di chi li ama (ogni scarrafone è genio a mamma sua).
A parlarci del genio lasciate dunque che non sia un osservatore scientifico, uno studioso immune, ma un genio vero. Anzi un genio filosofico che visse con la frustrazione del genio incompreso. Dico di Arthur Schopenhauer, catalogato negli inventari liceali come il padre del pessimismo, il fratello di Leopardi, lo zio di Nietzsche. Ma anche il nemico giurato di Hegel e degli idealisti, colui che osò tener lezioni di filosofia alla stessa ora di Hegel nella stessa università a Berlino, col risultato disastroso di perdere il confronto o la controprogrammazione, come diremmo oggi col linguaggio dei palinsesti televisivi. Schopenhauer vide andare al macero il suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione. Salvo vedersi riconoscere in tarda età la sua grandezza e morire in odore di genialità. Oggi gran parte della sua fortuna è dovuta a una serie di libretti curati da Franco Volpi che estrapolò dall'opera di Schopenhauer alcune sue pagine scintillanti circa l'arte di trattare le donne, la vecchiaia, l'insulto e così via, pubblicate da Adelphi. A lui hanno dedicato scritti empatici anche Sossio Giametta e Anacleto Verrecchia.
Sulla scia del culto romantico del genio, Schopenhauer dedicò al genio alcune pagine del Mondo, dei suoi supplementi, ma anche dei suoi Parerga e Paralipomena, un titolo spaventoso per una lettura piacevole. Il breve scritto sul genio è uscito ora in Italia a cura di Francesco Chiossone (Sul genio, edizione Il melangolo, pagg.96, euro 8).
Dunque, chi è il genio? Provo a sintetizzare le sue riflessioni sparse, lasciando da parte le spiegazioni fisiologiche, un po' datate. Genio è colui che sa vedere l'assoluto nel particolare, sa andare oltre i fenomeni e trascende la soggettività nello sguardo oggettivo. Il genio procede da una conoscenza intuitiva, sottratta alla sua volontà; il suo cervello non appartiene a lui ma al Mondo. Il genio è come se vedesse le cose da una postazione più alta, dove si perde il suo soggettivo punto di vista, in cui le cose appaiono collegate e rischiarate dalla luce oggettiva del giorno e non dal lume personale. La sua conoscenza è nel sole, non nella candela.
Il genio ha un'energia intellettuale superiore applicata a ciò che vi è di generale nell'essere. La concezione intuitiva, spiega Schopenhauer, è l'atto generativo di ogni autentica opera d'arte o pensiero immortale. La fantasia ne è un suo strumento indispensabile per trascendere il reale nel possibile. Vedere sempre il generale nel particolare, ecco il tratto distintivo del genio rispetto all'uomo comune e alle donne. Egli coglie l'essenza delle cose, andando contro la natura che invece congiunge intelletto e volontà. Quella separazione porta il genio a somigliare alla follia. Il genio non è mai un moderato o un flemmatico, spiega Schopenhauer, ma è sempre un eccessivo, frutto di un'esaltazione anormale della sua vita nervosa e cerebrale.
Il genio è poi per definizione inutile, i suoi frutti saranno colti al più nel futuro; come i fichi e i datteri che si gustano più secchi che freschi (paragone un po' infelice). Un'opera geniale non è mai utile, è il suo rango di nobiltà, come la fioritura. Gli alberi più belli e maestosi sono infecondi, nota Schopenhauer, le piante da frutto hanno invece tronchi piccoli e rinsecchiti (non conosceva gli ulivi pugliesi e altre piante fruttuose). Di conseguenza il genio, non servendo al suo tempo ed eccedendo dalla norma degli uomini, è destinato a essere incompreso. Le persone comuni possono apprezzare il talento o il tipo brillante, difficilmente il genio, che vive in perenne discordanza col mondo e col proprio tempo. Avvertenza d'obbligo: per un genio incompreso ci sono mille presunti incompresi che geni non sono.
Poi, il genio è per natura solitario. È troppo raro per poter incontrare dei suoi simili e troppo diverso dagli altri per poter stare in compagnia e pensare in comune. Perciò si apparta, è a disagio. Se il genio è misantropo, anche qui non vale l'inverso, che la misantropia sia il segno certo di una superiorità.
Il genio poi è malinconico, anche se trae delizia abbandonandosi alla propria ispirazione. Lo diceva già Aristotele, lo ripeteva Cicerone e poi anche Goethe. Schopenhauer lo spiega non solo con la solitudine e l'incomprensione ma col fatto che più è viva la luce che illumina l'intelletto, più è in grado di percepire la miseria della sua condizione. Dunque il genio non può che essere pessimista, come lo era lui. Vi risparmio anche qui la controtesi: se il genio è malinconico, non tutti i tristi e i depressi sono potenziali genialoidi.
Infine il genio è come un bambino, come lui ha uno sguardo più puro e disinteressato sul mondo. Anzi, ogni bambino è in un certo senso un genio e ogni genio è in un certo senso un bambino (qui lui cita Mozart e Goethe, noi potremmo citare Dalì e Fellini). Nel fanciullo, secondo Schopenhauer, l'intelletto prevale sulla volontà (ma i suoi capricci non prefigurano la volontà?). Al bambino come al genio manca l'arida serietà tipica degli uomini comuni; c'è una vena giocosa e grottesca. Qui si affaccia la sindrome di Peter Pan (ma l'infantilismo in sé non è sintomo di genialità). Schopenhauer osserva che la genialità originaria del bambino viene poi rubata dalla genitalità, ossia la pulsione sessuale, che è il focolaio della volontà e dunque nemica della conoscenza. Come dire che il genio tende a restare sessualmente bambino.
Il genio, insomma, è un bambino malinconico che trascura sé e si cura del mondo. Il suo soffitto è il cielo, la sua vista è la visione del mondo, che è la sua penetrazione. Schopenhauer fa notare che l'orangutan (come le scimmie), è intelligente da piccolo e diventa poi rozzo e brutale da adulto, in un rapporto inverso tra età e intelligenza. Tradotto al presente è un implicito sostegno alla rottamazione dei vecchi e un largo ai giovani per ragioni bio-cerebrali.

Ma lasciamo stare le applicazioni odierne e i paragoni scimmieschi con gli orangutan che non portano bene, almeno a chi li fa...
E poi la tesi è infondata, non mancano capolavori del genio in età senile. Se il genio è sregolatezza, anche l'età precoce non può essere una regola. Il genio è puer eternus.

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