"Vorrei dirle qualcosa che non ho mai detto a nessuno"

In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne 2020, pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto di Intervista alla sposa, di Silvio Danese (La Nave di Teseo), romanzo noir che indaga le origini della violenza domestica

"Vorrei dirle qualcosa che non ho mai detto a nessuno"

Voglio incominciare dall’inizio. Sono stato mesi a pensare qual è l’inizio. Così glielo dico.

“Dalla cena, allora. Da quella sera.”

Non è l’inizio.

“Partiamo dalla cena. Lei cerca questo, inutile girarci intorno.”

Che cosa cerco, penso.

“Per me non cambia niente.”

Non ci credo che non cambia, ma non lo dico.

“Stare qui, poi. A cosa serve.”

A niente, forse neanche alla verità, ma se ammetto che ha ragione devo alzarmi, uscire e dimenticare il libro.

Mi guarda. “Serve a lei.”

Siamo seduti su seggiole di ferro a un tavolo di fòrmica, uno di fronte all’altra. Fuori dal mondo ci tiene una finestra piombata di vetri smerigliati. La prima impressione: caduto da una piattaforma di fantasie, giù sul duro. Forse ho sbagliato. Sbagliato a convincerla, sbagliata anche la fiducia in questi incontri. Dico: Allora come vuole, partiamo da quella sera.

“Prima vorrei dirle una cosa.”

Intervista alla sposa

Per raggiungere l’ala antica puzzolente di umidità e cemento si prende una corsia bianca sillabata da porte chiuse di vetro e legno laccato. Il soffitto risuona nei passi come a scuola d’estate. Quando il corridoio si stringe, un pianerottolo a inferriata lo schiaccia verso il portoncino di ferro della nostra stanza, un vano enorme, troppo grande per sentirsi vicini in due. Una volta a crociera si apre larga giù sui muri. Conto tre termosifoni in ghisa appostati a ogni parete, uno dietro la mia schiena. Appeso con filo di ferro c’è un orologio da cucina con vistose lancette rosse. Anche la piccola telecamera puntata sul tavolo sembra precaria. Il filo bianco pigiato a spirali dietro un supporto allentato viene da un braccio arrugginito. Accesa? Ora che ci penso, ascoltando in cuffia, anzi ora che risento: da fuori non arrivano rumori, passi, voci. Quando non parliamo risuona un gergo cupo da battello in movimento, bolle a fasi e volumi, un motore lontano e sotterraneo. Non c’è, è inverno, e fuori la neve scende sul ghiaccio, ma se ci fosse un moscerino su queste pareti lucide potrei vederlo. Che dire ancora? L’odore di vernice fresca. Forse viene dallo sgabello accanto al termosifone più grande. Sullo sgabello c’è una piccola pianta, le foglie spossate, macchiate da bruciature. Fa caldo. Soltanto quando la porta si è richiusa alle sue spalle, e lei invece di raggiungermi al tavolo ha esitato un momento, ore, gli occhi in guardia come il gatto sul davanzale, salto-o-non-salto tu vai comunque a farti fottere, ho capito che potevo buttare via tutto, appunti, cronologie, domande, e i ritagli imbottiti nella cartelletta. Per ora mi trovo consegnato nelle sue mani come il bambino che ha pianto, invocato il giocattolo e poi, sopraffatto dal risultato, ma anche intimidito dal dubbio di aver preteso quello sbagliato, lo fissa incredulo. La cosa certa è che non posso più tirarmi indietro. Può farlo lei, quando vuole, questo sì. Se non mi dà ciò di cui ho bisogno, se non ottengo ciò che ho dichiarato di cercare, faccio una figura di merda, e non posso neanche usarlo il giocattolo. Per farne cosa, ancora non so. Deciso niente.

La posizione di partenza è: io faccio le domande. Ma non è neanche così, per ora, perciò va bene, partiamo da dove vuoi. Non ho il controllo. Non ancora.

“Vorrei dirle qualcosa che non ho mai detto a nessuno. Neanche a me stessa.”

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