A volte il titolo ha il potere di cambiare il modo in cui leggiamo un libro. Prendiamo Di carne e di nulla (Einaudi, pagg. 240, euro 18; traduzione di Giovanna Granato), l'ultima raccolta di saggi, fin qui inediti in Italia, di David Foster Wallace. Il titolo originale Usa, a quanto pare non d'autore, è Both Flesh and Not. Una espressione difficile, ricca di sfumature, impossibile da tradurre alla lettera. Si tratta di una citazione (ma solo a metà) del famoso «ritrattone» di Roger Federer realizzato con poetica bravura da Wallace, secondo il quale il corpo del tennista svizzero è «both flesh and, somehow, light», cioè «sia di carne sia, in un certo senso, di luce». Come tradurre dunque Both Flesh and Not? Una possibilità è quella scelta da Einaudi, anche se complicata dalla decisione di non ristampare proprio il saggio su Federer perché già pubblicato in altro volume (Il tennis come esperienza religiosa, Einaudi; nell'edizione Usa invece è collocato dove è logico che sia: in apertura).
Comunque il titolo Di carne e di nulla è roba forte. Evocare ed enfatizzare il «nulla» è già interpretazione. Suggerisce al lettore un nichilismo di fondo, la mancanza di significato, il niente che ci attende. Wallace, negli articoli antologizzati, che spaziano da Terminator a Borges, sembra proprio andare nella direzione opposta, verso «la luce», alla ricerca dell'anima dell'arte, e quindi del senso profondo della vita. Come abbiamo appreso dalla biografia di D.T. Max (Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi, Einaudi), in effetti Wallace ha lottato per fuggire dalla parte distruttiva della postmodernità e di se stesso. Esausto, incapace di sopportare ancora il peso della scrittura, come egli stesso disse poco prima dell'ultima crisi, ha forse firmato la resa al «nulla» col suicidio. Ma questo non cambia la sostanza di ciò che leggiamo in Di carne e di nulla. Anzi: la avvalora, facendoci capire quanto sia importante ogni singola riga, anche quella all'apparenza più leggera.
Il tentativo di trovare punti di riferimento solidi si spinge fino a un'esaltazione dell'Aids (!) visto come «dono concesso dalla natura per ristabilire un qualche equilibrio cruciale, evocato forse inconsciamente dalla disperazione erotica collettiva della saturazione post Sessanta». Quando Wallace deve indicare «i cinque romanzi americani spaventosamente sottovalutati», a Meridiano di sangue di Cormac McCarthy non riserva un vero e proprio commento, come agli altri, ma una sola battuta: «Inutile dirlo». Cos'è la preferenza per il biblico McCarthy (e Dostoevskij) se non prendere le distanze dai vari Pynchon? Per stroncare gli «Scrittori Vistosamente Giovani» (Bret Easton Ellis ancora freme di rabbia) l'autore di Infinite Jest tira fuori un argomento più esistenziale che stilistico. «Ultraminimalisti», «Nichilisti alla Neiman-Marcus» e «Ermetici da Workshop» sono massacrati in quanto cinici e indifferenti: «Il pericolo è che, mano a mano che nell'intrattenimento le negazioni della verità diventano sempre più efficaci, pervasive e seducenti, finiremo col dimenticare che cosa negano. È spaventoso. Perché a me sembra cristallino che, se dimentichiamo come morire, finiremo col dimenticare come vivere». C'è spazio anche per una indiretta ma chiara dichiarazione di intenti: «Lo stato di cose generale che spiega una visione artistica nichilista rende imperativo che l'arte non sia nichilista».
Di carne e di nulla si chiude con tre interviste inedite. Ecco spuntare un deciso affondo contro l'ironia postmoderna: «Il problema è che quando l'ironia diventa di per sé un semplice strumento di discorso sociale, nel senso che non provoca più nessun cambiamento, è solo un modo fico di fare... L'ironia dopo un po' diventa il rumore dei prigionieri contenti della reclusione. Il canto di un uccello contento di stare in gabbia». Con tanti saluti, ancora una volta, ai maestri di un tempo, DeLillo, Pynchon, Gaddis: «La loro voce ironica l'abbiamo adottata come modo per proteggerci dalla responsabilità delle situazioni». Troppo poco per uno scrittore convinto che l'arte abbia «a che fare con la solitudine e con l'imbastire un dialogo fra esseri umani».
Se poi non bastasse Di carne e di nulla a testimoniare lo scarso interesse di Wallace verso il «nulla», si possono recuperare le interviste appena ripubblicate da minimumfax, Un antidoto contro la solitudine (appunto). Apriamo a caso: «La mia è una generazione che non ha ereditato assolutamente nulla, in termini di valori morali significativi, ed è nostro compito crearceli, e invece non lo stiamo facendo». Più luce che nulla.
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