Ma il cuore dell’America non è soltanto New York

Caro Granzotto, Fini dice che gli Stati Uniti non sarebbero pronti per un presidente nero e da sinistra subito si alza l’onda dell’indignazione e della condanna. Ma cosa ha detto di tanto grave, Fini, da spingere il numero due del Partito democratico, Franceschini, ad accusarlo di razzismo aggiungendo che le parole di Fini sono la prova che il Popolo della libertà è «di destra»? Come definirebbe lei tutto ciò?


Bubbole, caro Sangiorgi. Gianfranco Fini s’è limitato ad affermare una cosa scontata e Dario Franceschini una cretinata. Doppia cretinata. Primo perché il Pidielle è di destra e non ha mai voluto dimostrare di essere di sinistra. Secondo perché il nutrire dubbi sulla ipotesi che negli Stati Uniti venga eletto un presidente di colore non significa, come il Franceschini pretende, «cedere a istinti che credevamo ormai sopiti». Per dirla tutta (la cretinata), mettere in dubbio che Obama riesca ad agguantare la Casa Bianca non è razzismo. E il contrario del razzismo non è - e non deve essere - l’atteggiamento acritico, il cieco consenso a tutto ciò che non è bianco e a tutti coloro che sono neri. Ecchediamine. Tornando alla dichiarazione incriminata, è evidente che Fini ragiona senza tener conto di un luogo comune e cioè ritenere che l’America sia New York. New York è certamente la città che fa notizia e che le produce, New York è liberal, è lo stereotipo degli States, ma non è l’America. E sarà l’America, saranno i cittadini di Springboro, di Crossville, di Oak Grove, di Hoopestone, di Shelbina, di Broken Bow, di Fredonia, di Marble Falls, di Mesquite e di Dardanelle, delle innumerevoli città e cittadine disseminate nei dieci milioni di chilometri quadrati ad eleggere il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti. Anche quelli di New York, certo. Ma in democrazia i voti si contano, non si pesano.
Io penso che i democratici si siano messi in un bel pasticcio, caro Sangiorgi. Il loro elettorato, infatti, non ha alternative a scelte politicamente corrette: una donna e un afroamericano. Scelte che certamente mandano in visibilio gli ambienti liberal di New York, ma a Oak Grove? Lì per lì le candidature politicamente corrette (da noi possono essere, sono, un gay, una lesbica, un/una transgender, un disoccupato, un ventenne, una principessa, una sguattera, eccetera) appaiono «giuste» ed in quanto tali inconfutabili (pena, ove si manifesti perplessità, d’essere accusati di razzismo, maschilismo, omofobia, passatismo eccetera). Ma sbollito l’entusiasmo l’elettore non completamente rincitrullito può lecitamente domandarsi se sia assennato votare per quella o per quello solo perché l’una è donna e l’altro di colore. Resta poi da chiedersi, come si è chiesto Fini, se l’America - non New York, l’America - sia pronta ad un presidente femmina o a un presidente nero. Se milioni di americani - sempre lo stesso discorso: non i newyorkesi, gli americani - giudichino sia giunto il momento di riconoscersi e di farsi rappresentare da una donna o da un nero.

A parte che saranno pure fatti loro, che c’è di male? E che male c’è a cogliere quella perplessità? Solo i Franceschini possono vedervi cedimenti «a istinti che credevamo ormai sopiti». Forse perché è in lui che s’è sopito qualcosa. Il cervello.

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