Cuper, l’uomo del 5 maggio ricomincia dal Parma

U n cappotto grigio. Dentro, un uomo con lo stesso colore. Hector Raul Cuper, ideale per la televisione dei favolosi anni Sessanta, prima del sistema Pal e del francese Secam, quando non erano necessarie moviole, processi, microchip ma il football ugualmente divertiva e faceva discutere. Di anni cinquantadue, portati con la cara triste del Sud America, argentino di Chabas, terra di Santa Fè, di cuore e di sangue ma non di passioni fumantine, introverso nel carattere, silenzioso quasi, diffidente anche, poco propenso alle interviste, alle furbate con i tifosi, Hector Cuper va a cominciare un’altra avventura italiana. Di lui si innamorò Mario Corso che a forza di calciare a foglia morta finì incantato per quella faccia da viale del tramonto (si è detto che somigliasse ad Alì Agca, l’attentatore di Giovanni Paolo II), insomma quell’uomo dall’andamento lento che però faceva correre come schegge i ragazzi del Valencia. Luis Miramontes Suarez definì l’affare parlandogli, in lingua madre, dell’Inter nuova e di Moratti junior essendo il Cuper già a conoscenza dell’Inter famosa e del Moratti padre, l’epoca in cui i nerazzurri andarono a suonarle all’Independiente per la coppa Intercontinentale che non aveva dazi giapponesi da pagare ma si giocava su terreni terribili come quelli argentini. Cuper non aveva nemmeno dieci anni e già Luisito Suarez gli appariva di fronte, con la stessa faccia, gli stessi capelli, lo stesso stile che avrebbe ritrovato un giorno tra Villa d’Este e la Pinetina di Appiano Gentile.
Yo soy contigo è la frase che lo ha reso famoso, un colpo sul petto, con la mano aperta, per ognuno dei suoi prodi nel momento di mettere piede sul campo, un rito di sapore antico, un po’ datato, da allenatore nel pallone ma di effetto quando il prode è tale e non è un Fenomeno e qui si dovrebbe scrivere e parlare del Ronaldo che fu, del brasiliano che non accettava di ricevere spiegazioni e consigli da un argentino. Si dovrebbe scrivere e parlare del 5 di maggio, ei fu Cuper e con lui l’Inter umiliata e offesa dalla Lazio e dalla Juventus. Si dovrebbero ricordare le due semifinali europee mai perse ma nemmeno mai vinte contro il Milan che raccolse, ringraziò, passò il turno e andò a vincere nella partita successiva la coppa a Manchester contro la Juventus. Si dovrebbero aggiungere gli schizzi con Di Biagio, altre cose minori con Vieri e con Recoba, mezzo attaccante, mezzo regista, mezzo centrocampista, i soliti noti che ovviamente fanno gli ignoti, il licenziamento dopo la riconferma per far posto a Zaccheroni, i fischi e i lazzi per l’argentino triste e, per qualche ignorante, con le posture da male augurio e il conto billionaire in banca, con buen retiro, suo e dei parenti stretti e larghi, nell’albergo di stralusso sul lago di Como. Ma questa è roba cattiva, frammento acido, roba passata, così come il Maiorca e il Betis di Siviglia, stazioni della carriera recente di Cuper, l’hombre vertical pieno di spigoli e di nuvole scure, tutto casa e pallone, la squadra prima del singolo, la difesa prima dell’attacco, il contropiede prima dell’azione elaborata, un football dei ricordi piuttosto che le parole libere, spesso vuote, dei nuovi docenti calcistici. Gianni Brera diceva che gli argentini sono italiani che parlano bene lo spagnolo ma credono di essere inglesi.

Il Maestro non aveva conosciuto Hector Raul Cuper ma già ne aveva disegnato il profilo. A Parma, dopo il do di petto al Regio, aspettano il colpo sul petto al Tardini. Hanno già provato di tutto, da Calisto in poi. Adesso sono fiduciosi. Anche perché il cinque maggio quest’anno cade di lunedì.

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