Il custode del blocco di potere

Caro direttore, permettimi di intervenire in punta di piedi su questo «pronunciamento» del direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, a fianco del centrosinistra nelle prossime elezioni politiche del 9 aprile 2006.
Alla fine degli anni Settanta ero un giovane giornalista del Corriere e fui intervistato da un giovanissimo collega, Gad Lerner, per il mensile del mondo dei media Prima comunicazione. A Lerner non negai di essere un socialista, anzi un craxiano, dopo aver militato giovanissimo nel Pci. Aggiunsi, per completezza dell’informazione che, mentre frequentavo l’università e facevo politica studentesca, avevo lavorato sia nella federazione comunista di Milano sia in quella del Psi. L’intervista uscì qualche settimana dopo con un titolo sorprendente: «Prima socialista, poi giornalista». Lerner mi telefonò per scusarsi, non aveva dettato il titolo. Ma io restai «bollato» e le smentite venivano pubblicate nella rubrica delle lettere. Purtroppo anche nella nostra categoria si leggono e si leggevano solo i titoli e non i pezzi, quindi il mio «reato» ebbe abbastanza eco, tanto da essere ripreso da altri giornali in modo deformato, al punto che alcuni gazzettieri dell’epoca chiesero più volte il mio allontanamento dal Corriere, anche quando Lerner specificò per iscritto che io non avevo mai detto, nel corso di due ore di intervista, quella frase. Basta andare a rivedere il testo per rendersene facilmente conto.
Ma ufficialmente mi ero «schierato» e al Corriere non si poteva. Me lo ripeté in un’assemblea liceale un alunno che è oggi diventato uno dei tuoi più bravi redattori. Qualche mese dopo, l’amministratore delegato del Corriere della Sera, Bruno Tassan Din, iscritto alla P2 ma in ottimi rapporti con il Pci dell’epoca, mi spedì un avvertimento programmatico sempre su Prima comunicazione: «Stimo quei giornalisti impegnati in politica che però sono prima di tutto giornalisti. Come il caporedattore Giovanni Panozzo, prima giornalista e poi comunista».
Era un’epoca amara la fine degli anni Settanta in via Solferino, soprattutto per i socialisti craxiani. Alla fine arrivò anche il morto ammazzato dai bierristi, Walter Tobagi, socialista, cattolico e craxiano. Fatto che colpì drammaticamente, ma in contropiede, Bettino Craxi, perché non sapeva che cosa facessero esattamente quei socialisti del tutto indipendenti al Corriere. Ma su questo fatto ho già scritto tre libri e troppi articoli. Non insisto più.
Il problema che sta sul tappeto adesso è come sia mutato l’effetto di schierarsi oggi al Corriere della Sera. Per carità, non voglio paragonare il mio caso a quello di Mieli. E poi oggi è cambiato molto sotto i cieli europei e italiani: non c’è più l’Urss, non c’è più il Muro di Berlino, non c’è più nemmeno il Pci, non c’è più la prima Repubblica e viviamo in un sistema di bipartitismo, piuttosto anomalo e imperfetto, ma sempre ipoteticamente bipartitico. Dicevo che è cambiato molto, ma dall’uscita di Giovanni Spadolini dal Corriere della Sera, anno 1972, non è affatto mutata la propensione del grande quotidiano borghese milanese e nazionale a guardare con simpatia alla parte più sinistra dello schieramento politico italiano.
In un certo senso stupisce lo stupore dei lettori che abbandonano il vecchio giornale. Non basta qualche bravo editorialista a correggere l’anima di un giornale che ha virato a sinistra dai tempi di Piero Ottone. Mi disse a quei tempi Enzo Bettiza: «Ottone si presenta come il vessillifero di una borghesia illuminista, progressista, avanzata. Ma in realtà non è altro che l’uomo che spera di poter diventare l’Ilja Erenburg del compromesso storico, spera di poter raggiungere, sotto gli auspici della sua direzione, il punto di incontro consociativo tra cattolici e comunisti, la nuova società polacco-italiana, di cui egli sarebbe stato uno dei personaggi più autorevoli dirigendone l’organo di informazione o di disinformazione». Il sogno di Ottone svanì, ma lasciò un’eredità: la voglia di fare un giornale-partito da posizioni falsamente indipendenti. In questo anticipò addirittura Eugenio Scalfari con la sua Repubblica.
E quel lascito è continuato negli anni, con due tentativi in contro-tendenza, le direzioni di Piero Ostellino e di Ugo Stille. Poi tutto è andato liscio come l’olio, con il Corriere che accarezzava il pelo alla sinistra più totalitaria dell’Occidente. La ragione di questa scelta di fondo, ormai storica, è correlativa alla scelta del consiglio d’amministrazione del Corriere della Sera, espressione di quella pretesa «borghesia illuminista, progressista e avanzata». Quella che, tanto per intenderci, il Duce chiamava: «Una massa di coglioni». Ma che anche il comunista Giorgio Amendola definiva: «Borghesia stracciona». Quella stessa borghesia che Raffaele Mattioli insultava e che Enrico Cuccia inquadrava con disprezzo nei protagonisti di «un capitalismo senza capitali».
I grandi industriali italiani e la cosiddetta grande finanza, per salvarsi dai loro fallimenti, da anni hanno optato per una «liaison dangereuse» con la sinistra. Hanno sposato il «capitalismo relazionale». In cambio della difesa delle loro rendite tendono mani «sul banco e sottobanco» al Pci, ai postcomunisti, ai sindacati, ai loro vassalli e agli intellettuali organici, a tutto il conservatorismo corporativo, dipinto di rosso, di questa Italia. È un autentico blocco sociale che si oppone all’Italia delle piccole e medie imprese vivacissime su tutto il nostro territorio, all’emergere di nuovi ceti sociali e di nuove professioni.
Caro direttore, guarda la composizione del cda del Corriere della Sera. Ci sono banchieri, assicuratori, industriali dell’auto e della scarpa, cementieri, privatizzatori di servizi, forse non ci sono i farmaceutici (ma non lo so). È un caso unico al mondo, un crogiolo di conflitti di interesse. È un occhiuto «partito della rendita» che non vuole cambiare nulla e si oppone ferocemente a qualsiasi tentativo di riforme. Ci pensa naturalmente il suo giornale a «fare la propaganda» di questa linea, magari metabolizzando qualche vero liberale nel corpaccione del consociativismo più cupo. E nello stesso tempo facendo in modo che il comitato di redazione interno (c’è un tale che ci è rimasto trenta anni) interpreti la parte della «guardia ideologica» e faccia finta di «tirare la giacchetta» al direttore di turno.
Gli esempi di tutto questo andazzo sono infiniti. Suggerisco a qualche studente di laurearsi su questa contraddizione fragorosa e tutta italiana, magari rispolverando gli attacchi del Corriere alla «Biennale del dissenso nel 1977» (boicottata insieme dagli industriali e dai sindacati), i pruriti contro il referendum di Craxi sulla «scala mobile» (il punto di contingenza l’avevano deciso Giovanni Agnelli e i sindacati ispirati da Berlinguer), la difesa del «partito della fermezza» sul «caso Moro», fino a diventare il quotidiano vessillifero del giustizialismo più sfrenato negli anni Novanta, ma nascondendo in seguito la crisi della Fiat, le dissennatezze finanziarie del dopo-Cuccia, dell’assalto a Maranghi e dei nuovi «leoni» della finanza che badano soprattutto alla «trimestrale».
Spero che all’esame di laurea ci sia sempre, oltre alla tesi, anche la cosiddetta tesina. Questa potrebbe riguardare il «perché» Paolo Mieli ha deciso, in questo momento, di strappare il velo di questa «ipocrisia istituzionale» sul «giornale istituzione», come lo definì il direttore Alberto Cavallari. Mieli è intelligente, si ispira al principe di Benevento, il grande Talleyrand, che ha vissuto tutte le stagioni rivoluzionarie francesi tra Settecento e Ottocento, morendo tranquillamente nel suo letto tra le braccia della splendida e giovane contessa di Lino. Più che accettare suggerimenti, interpreta gli umori di un consiglio di amministrazione che è incalzato da fallimenti e risiko finanziari. Sono tutti nervosi, in questo momento, in quel cda. Non per il povero Stefano Ricucci, ma per l’eventualità che il «blocco di potere» possa perdere le elezioni e quindi sgretolarsi. È talmente variegato, questa volta, il «blocco sociale»! Deve far convivere Vladimir Luxuria con Clemente Mastella, i no-global con l’ex Commissario europeo, Oliviero Diliberto con Giuliano Amato, Rosy Bindi con Marco Pannella. È un delirio.
Paolo Mieli taglia un nodo gordiano. È lui, grande ministro della propaganda, a chiamare gli amministratori alle loro responsabilità in caso di non vittoria. Se il «Re è nudo», meglio affidarsi all’arroganza del potere che alla solita «ipocrisia istituzionale». E se per caso ci fosse una Waterloo (perché questo rappresenterebbe una sconfitta del centrosinistra) Mieli si preparerebbe a una discreta trattativa con il Wellington di turno.
Caro direttore, mi chiederai che cosa c’entra tutto questo con la libertà di stampa e la completezza d’informazione? Assolutamente nulla.

La libertà di stampa oggi è un’utopia di qualche romantico o, al massimo, di qualche uomo che cerca un pizzico di verità in questa baraonda antropologica. Come faceva il mio povero amico Tobagi. Come cerchi di farlo tu, attraverso salti mortali.
Ringraziandoti,

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